Che si tratti di cinema o teatro piuttosto
che di cabaret, numerose sono le apparizioni di quel capo realizzato in vari
tipi di stoffa – dalla batista di lino o di cotone alla seta, dalla flanella
all’organza, dal madapolam al pizzo, passando per la tela d’Oriente, il taffetà
e il cambric – qual è la camicia. Un tempo, questo indumento veniva indossato
dalle donne a diretto contatto con la pelle, sotto abiti multistrato: ben
nota quella di Isabella d’Este, moglie di Carlo VI re di Francia, alla quale si
deve, con ogni probabilità, la nascita della cosiddetta “camicia da giorno”.
Con il passare dei secoli e delle tendenze, la camicia “cara amica che tutte le situazioni risolve, strana, assurda,
accomodante, si presta ad aiutarci quando il guardaroba ci tradisce”,
avendo al contempo “molte fogge, andando
dal collo alla vita ed anche più sotto”, viene portata fuori o dentro le
gonne e i pantaloni, sciolta in libertà o strizzata da una cintura, con maniche
e colli capolavori di creatività insieme a jabot e quant’altro ne determini la
cifra stilistica che l’ha ideata e realizzata. Tanto importante da essere
sdoganata nel gergo comune per frasi e
proverbi ricchi di significato emblematico, assurgendo a una funzione
metaforico-evocativa non indifferente: dare
la camicia, nato con la camicia, giocarsi la camicia, rimanere in maniche di
camicia, sudare sette camicie e via dicendo… Così come simbolo indiscusso di significati che inevitabilmente rimandano a
epoche ben precise, divenendo viva testimonianza d’istanze sociali e valoriali:
nell’800 è rossa per i volontari garibaldini, nel XX secolo azzurra per i
nazionalisti italiani dopo la prima guerra mondiale, nera per i seguaci del
fascismo, bruna per gli esponenti del nazionalsocialismo. Ma non solo…nel 1945
è la camicetta di lino a maniche cortissime bordate di scuro (nella medesima
tinta dei pantaloni) indossata dalla signora Stanley Mortimer – considerata la
donna più elegante del mondo – a fare scuola, tanto che l’anno successivo
questi stessi indumenti indicano una corrente al femminile tout court. Anni, quelli della seconda metà del 900, in
cui la moda della camicia esplode, sulla scia di un’emancipazione della donna
sempre più dirompente. Le riviste patinate suggeriscono a gran voce “confezionatevi una camicetta” (con
tanto di schema eseguito dalla scuola di taglio Marangoni), anche se esistono
ancora i camiciai e il loro servizio “su misura” con cui confezionano modelli
perfetti, soprattutto da uomo, dotate di colli e doppi polsini, con tanto di
gemelli di ricambio: classiche, in tinta unita o a righe per il giorno, bianche
(rarissime le varianti colorate) per cerimonia e sera, da quelle con pizzi,
ruches e jabot a quelle più sobrie, con piegoline e nervature. La camicia nel guardaroba maschile ha
sempre goduto di un posto privilegiato, da vera protagonista della scena,
basti pensare all’importanza dei colli che dal modello alla “Robespierre”
diventano nel ‘900 morbidi, sfoderati, a lunghe punte. George Frazier, columnist del Boston Globe, in un suo articolo
sulle camicie asserisce che la “forma del
colletto è la cosa più importante”; mentre leggenda vuole che John Brooks, in Inghilterra a un
incontro di polo, vedendo i colletti dei giocatori fermati da bottoni per
evitare che le punte durante la corsa sbattessero sui loro volti, abbia avuto
l’ispirazione per l’ormai noto modello botton
down.
Made
in USA anche le camicie a fori “hawayane”, arrivate in Europa con i primi
turisti americani, che suscitano sorrisi e commenti ironici al pari di quei
modelli dalle taglie abbondanti a righe, a quadretti, scozzesi, che peraltro
esercitano un grande richiamo sul pubblico femminile tanto più che ne avvalla e
ne decreta la moda Elizabeth Taylor
nel film “La gatta sul tetto che scotta”. È proprio questo tipo di camicia –
allungata di alcuni centimetri, di flanella, di tela, di maglina – a diventare
la pratica compagna per la notte, trionfante nel suo allure sex-unisex. E
parlando di film, espressioni stilose di epoche passate, non si possono
dimenticare alcune scene in cui una fiorente Lana Turner, così come le ben più prosperose Jane Mansfield e Jane
Russell, si impongono con le loro camicette ben tese. Splendide poi quelle
brasiliane – tutte pizziouches e falpalà - di Carmen Miranda o quelle di Brigitte
Bardot e Jeanne Moreau. Di ben
altro genere sono, invece, le camicette semplici, quasi sempre indossate con
pantaloni classici o con jeans, da tre simboli di stile e eleganza quali Grace Kelly, Jacqueline Bouvier (alias
Kennedy-Onassis) e Audrey Hepburn;
così come quelle sapientemente portate da un’altra Hepburn – Katherine – che ne fa quasi una divisa.
Sono anni in cui l’eleganza viene scandita dai momenti della giornata che si
avvicendano, portando con sé occasioni più o meno mondane, più o meno formali.
Sulla scia di queste considerazioni, anche
la camicia viene creata allo scorrere del tempo, divenendo di volta in volta
alleato insostituibile per mises di successo, punto di incontro tra la
sobrietà più pura e l’intrigo più sofisticato. La camicia cambia così volto in continuazione: mattino, pomeriggio,
mezza sera, sera, per città, campagna, montagna, mare, gita, crociera, viaggio.
Tra le tante varianti sul tema, si può ricordare la “vareuse” (il cui nome
deriva dl bretone “varer”): camicia di tela grezza usata dai pescatori o, se
realizzata in panno, capo d’abbigliamento dell’esercito; così come i davantini di pizzo, velluto, piquet, indossati con i
tailleur o ancora i corpini, antesignani dei moderni top. Camicie o
camicette, con scollature quadrate, rotonde, ovali, a punta, all’americana;
girocollo o con colli a uomo, a mantellina, ricamati a punto inglese e a punto
festone (come i polsini), di piquet bianco (alla Crawford) o dai quali emergono
colli-stelo alla Modigliani; con maniche a guanto, aderenti o, al contrario, a
palloncino, a sbuffo, lunghe, corte, cortissime; con pieghe, piegoline,
drappeggi, ruches, jabot semplici, doppi o tripli; con balze di pizzo
arricciato; con gioco di bottoni di varie dimensioni e d’ogni altro tipo
davanti, sul dorso, di lato; con fiocchi “alla Lavaliere”, “alla Verdi” e
fiocchetti di velluto o raso. Amatissime
in bianco, ma da indossare rigorosamente “secondo
l’umore della giornata e comunque coordinandone sempre il colore dell’abito”,
negli anni ’50 sulla scia della Dolce Vita caprese, arrivano nel guardaroba
maschile le camicie a quadretti bianchi e rossi, da indossare senza cravatta,
sbottonate, con pantaloni di lino nero. Seguono le prime camicie rosa che
suscitano non meno sorrisi, ironia e polemiche delle hawayane. Nel frattempo la camiceria femminile si
sbizzarrisce all’inverosimile, prendendo spesso ispirazione da luoghi e culture
lontani, anche se la camicia bianca rimane fulgida nella sua eleganza
essenziale, vero caposaldo per un guardaroba impeccabile. Un capo-non capo,
basilare quel tanto che basta per essere abbinato facilmente con tutto –
pantaloni, gonne, tailleur – e al tempo stesso sofisticato e ricercato al punto
giusto per essere declinato anche nelle occasioni più formali. Nel 1947 si afferma che “la camicetta
vorrebbe significare in un certo senso novità, mentre non è che un ritorno
continuo d’ispirazioni, stili e costumi”. Una verità inconfutabile che
allora come oggi vale per ogni stagione in cui si vedono accanto a camicie
classiche, a righe o quadri d’ogni dimensione, alcune camicie da uomo di
batista bianca, girocollo e giromanica, ma con collo inamidato applicabile e
polsini doppi; mentre per donna, in un gioco intrigante e sussurrato di
“dessus-dessous”, o sotto-sopra che dir si voglia, ecco le camicette-déshabillé
di chiffon nero, di fragile pizzo, di morbidissimo crêpe
de chiffon, di mussola color polvere: trasparenti, vaporose, sexy, all’insegna
della femminilità ma sempre e comunque nel rispetto di un glamour garbato e di
un’eleganza sofisticata.
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