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martedì 8 novembre 2016

ART & CULTURE_Gian Paolo Barbieri, una nuova mostra



Nello scenario degli appuntamenti milanesi vi è una data da segnare in agenda: il 23 novembre, giorno in cui inaugurerà la mostra dedicata all’estro fotografico di Gian Paolo Barbieri, una delle firme più autorevoli della fotografia di moda. Ospitata fino al 20 dicembre presso 29 ARTS IN PROGRESS gallery di Milano (via San Vittore 13), la rassegna, dal titolo GIAN PAOLO BARBIERI. Occhio, cuore e mente: cinquant’anni di bellezza nella fotografia di moda, ripercorrerà oltre mezzo secolo di carriera di Gian Paolo Barbieri.
Esposti, 40 tra i suoi soggetti più conosciuti, stampe vintage ai sali d’argento e polaroid, oltre ad alcuni scatti inediti.
Celebre per la teatralità dei suoi set, Gian Paolo Barbieri ha saputo rappresentare lo spirito della fotografia di moda, in tutte le sue sfumature, dalla seduzione alla provocazione, dal mito all’eleganza.
Interprete più accreditato del Made in Italy, ha creato campagne fotografiche per maison quali Valentino, Armani, Missoni, Versace, Ferré, Dolce & Gabbana.
Il suo lavoro per le edizioni francesi, americane e tedesche di Vogue, inoltre, lo ha portato a collaborare con stilisti internazionali come Yves Saint Laurent e Vivienne Westwood.
Proprio parlando di lui, Yves Saint Laurent ha affermato che “Gian Paolo Barbieri attraversa l’eleganza sontuosa dei suoi ritratti femminili e delle scene dei quartieri poveri con la stessa anima, lo stesso amore. Un segreto che non appartiene che a lui. Nutro per Gian Paolo una profonda ammirazione, perché lo ritengo un fotografo sensibile, umano e capace di dignitosa partecipazione emotiva”. E ancora, Gianfranco Ferré ha dichiarato “Le immagini di Gian Paolo sono – nell’ordine – occhio, cuore e mente”. Impossibile non citare Giorgio Armani, secondo il quale “Gian Paolo ottiene risultati incredibili, senza lasciarsi prendere la mano dagli effetti. Il suo lieve passo indietro dalla realtà gli permette di trasformarla, innalzandola di registro: l’abito elegante diventa imperiale, l’occhio bello, stupendo, soltanto grazie alle luci e alla scelta del momento giusto”.
Le fotografie per riviste di moda, ritratti in studio, scatti eseguiti durante pause sul set restituiscono un affresco variopinto del mondo della moda nonché la sua dimensione sospesa tra realtà e immaginario.
Il risultato difficile da raggiungere, ma che rappresenta lo stile inconfondibile di Gian Paolo Barbieri, complici le dive e le modelle in posa davanti al suo obiettivo, tra cui Audrey Hepburn, Jerry Hall, Vivienne Westwood, Eva Malstrom, Aly Dunne, Mary Jonasson, Veruschka, Anjelica Huston, le italiane Isa Stoppi, Simonetta Gianfelici, Ivana Bastianello, Monica Bellucci.
L’esposizione, nell’ambito degli eventi in calendario durante il Photo Vogue Festival, è un’occasione imperdibile per ripercorrere quanto di meglio la fotografia ha potuto esprimere nel mondo della moda ed entrare in contatto con un universo di enorme fascino ed eleganza formale.

GIAN PAOLO BARBIERI. Occhio, cuore e mente: cinquant’anni di bellezza nella fotografia di moda
Milano, 29 ARTS IN PROGRESS Gallery - Via San Vittore 13

23 novembre - 20 dicembre 2016
Orari: martedì-sabato, 11.00-19.00 - Altri giorni e orari su appuntamento
Ingresso libero


Informazioni: www.29artsinprogress.com  

lunedì 9 giugno 2014

ART & CULTURE_Gian Paolo Barbieri in mostra ad Aosta










Gian Paolo Barbieri, padre della fotografia di moda. A lui il plauso d’aver immortalato i momenti più belli dello stile, ma soprattutto di quel fenomeno noto come prêt-à-porter che negli anni ’70 ha cominciato a muovere i primi passi in un’Italia desiderosa di fare e sperimentare, e d’averli portati fino ai giorni nostri. Memorabili le sue collaborazioni con i più grandi stilisti del made in Italy, Gianfranco Ferré, Valentino e Versace in testa, così come il suo contributo imprescindibile nella definizione corrente della pubblicità di moda, complice l’allestimento creativo di innovativi set fotografici per campagne realizzate in tandem con il couturier Valentino.
A lui, al suo estro creativo e alla sua inconfondibile cifra stilistica il Centro Saint-Bénin di Aosta dedica la mostra “Gianpaolo Barbieri. La seduzione della moda”, visitabile sino al 2 novembre prossimo.
Curata da Daria Jorioz e da Raffaella Ferrari, l’esposizione ripercorre la carriera del fotografo milanese attraverso 58 scatti di grande formato, che raccontano la storia della moda dagli anni ‘60 fino ai primi anni Zero: dalle campagne pubblicitarie per le maison Valentino, Armani, Ferré e Versace, alle copertine di Vogue, in un percorso denso di suggestioni che, descrivendo l’evoluzione del suo stile, offre, al contempo, uno spaccato sulla storia recente della fotografia di moda.
Gian Paolo Barbieri ha ritratto nel suo studio le icone della moda e del mondo dello spettacolo: dalla magnifica Audrey Hepburn del 1969 alla top model Veruschka, a Vivienne Westwood, per arrivare a note celebrità del cinema e dell’arte come Monica Bellucci, Anjelica Huston, Sophia Loren, Rudolph Nureyev, Jerry Hall, Gilbert&George.
Nato a Milano nel 1938, ha contribuito a creare l'immagine di moda, lavorando a stretto contatto con gli stilisti e le testate di moda più famose. I suoi scatti glamour sono stati fonte di ispirazione per molte altre firme della fotografia: nelle sue immagini si ritrova una rigorosa ricerca della perfezione formale e insieme il racconto e la narrazione di un mondo “altro”, quello della bellezza, del sogno, complici le sue reminiscenze giovanili maturate nel mondo del cinema in un’operosa Cinecittà. Un’esperienza quella con la settima arte che molto influenza la cifra stilistica del fotografo: numerosi, infatti, sono gli scatti in cui si riscontra un’evidente ispirazione cinematografica, in cui il set, il posato da studio, non solo mette in scena, ma racconta come fosse il frame di un film.
Nel 1961 viene reclutato da Tom Kublin come assistente sui set delle collezioni francesi di moda: una collaborazione breve a causa della morte improvvisa dello stesso Kublin. Nel 1965, invece, ha inizio l’avventura con Vogue: a lui il compito di realizzare la copertina del primo numero di Vogue Italia. Ed è proprio grazie ai servizi fotografici per le edizioni italiana, francese, americana e tedesca della rivista che le grandi firme della moda gli affidano le loro campagne pubblicitarie. Nel 1978 Barbieri è indicato da Stern tra i quattordici autori che hanno fatto la storia della fotografia di moda. Le sue fotografie sono esposte in sedi prestigiose in tutto il mondo, al Victoria and Albert Museum di Londra, alla National Portrait Gallery di Londra e al Kunstforum di Vienna.
A corollario della mostra, un catalogo bilingue italiano-francese, che contiene le riproduzioni di tutte le opere in mostra, i testi di Daria Jorioz e Raffaella Ferrari e un’intervista a Gian Paolo Barbieri, edito da Allemandi.
Un viaggio per immagini nel meraviglioso mondo della moda e del made in Italy. Prestigioso compagno di viaggio, l’obiettivo di Gian Paolo Barbieri, colui che ha cristallizzato singoli istanti che, letti in successione, riproducono la storia di un Paese, ma ancora più, della società.

Gian Paolo Barbieri. La seduzione della moda
Centro Saint-Bénin, Aosta
Fino al 2 novembre 2014

Orari: martedì-domenica 9.30-12.30 / 14.30-18.30, chiuso lunedì  

mercoledì 15 gennaio 2014

PEOPLE_Gian Paolo Barbieri: la fotografia diventa moda









Adora scattare in analogico; non ritocca le fotografie; ha comprato la sua prima Reflex Woiglander 35 mm a rate; reputa moderne icone di stile Uma Thurman e Virna Lisi; rimpiange di non aver fotografato gli oggetti del palazzo della Regina a Tananarive in Madagascar. Gian Paolo Barbieri: l’occhio, il cuore, la mente della fotografia, come amava definirlo l’amico Gianfranco Ferré. Un uomo dal gusto estetico eccelso, capace di creare con la sua arte un sogno che evoca un mito: quello della moda. Ripercorre la sua vita artistica è come fare un viaggio nel tempo, a bordo di quello stesso obiettivo che ha immortalato gli albori del prêt-à-porter firmati Valentino, Versace, Armani e Ferré. Milanese di nascita, Barbieri approda alla fotografia da autodidatta, mosso dalla passione per il cinema che lo conduce, giovanissimo, nella Roma della Dolce Vita. Qui fotografa aspiranti divi, mostrando un talento naturale per la fotografia di moda, un’attività sconosciuta nell’Italia dell’epoca in cui non esistono riviste patinate né, tantomeno, la moda propriamente detta. Si trasferisce a Parigi e diviene assistente di Tom Kublin, fotografo di Harper’s Bazaar: un incontro di soli 20 giorni - interrotto dalla morte dello stesso Kublin - ma che ne segna la carriera. Il suo impegno nella moda s’intensifica: nel 1963 pubblica alcune immagini su Novità - rivista che nel 1966 diventa Vogue Italia – iniziando la collaborazione con la Condé Nast con cui in seguito scatta per l’edizione francese e americana di Vogue. Non esistendo ancora la figura del fashion editor, deve inventare il setting e pensare alle pettinature, al trucco, ai gioielli, ricorrendo spesso a materiali insoliti: emblematica la cover per la quale utilizza come orecchini delle palline da ping pong dipinte con la madreperla. Un talento, il suo, con cui vince il Premio Biancamano come miglior fotografo italiano (1968) e rientra tra i quattordici migliori fotografi di moda internazionali secondo il settimanale tedesco Stern (1978). Nel 1964 apre uno studio a Milano e qualche anno più tardi inizia il sodalizio con il prêt-à-porter. Dall’incontro con Walter Albini capisce l’importanza di entrare nella mente dello stilista e diventarne l’occhio attraverso la macchina fotografica. Un’ambizione che diviene realtà con Valentino, con il quale inventa l’attuale concetto di campagna pubblicitaria, contribuendo, al contempo, a definire l’ideale femminile dello stilista: le collezioni vivono grazie allo stile fotografico che ne interpreta le idee e alle modelle che ne personificano lo spirito. La prima campagna è preparata in studio e Barbieri dimostra la sua visionaria capacità di creare ambienti e situazioni: quintali di semolino divengono le dune di un deserto in cui si staglia una meravigliosa Mirella Petteni. Da allora gli scatti con volti noti si susseguono: una seducente Jarry Hall su fondo astratto con abito nero dalla profonda scollatura; una memorabile Veruschka coperta da un velo sottile, look ripreso anni dopo da Herb Ritts; una sofisticata Audrey Hepburn che per timore di sporcare il fondale bianco si portava le pantofole da casa; un’ammaliante Monica Bellucci, protagonista del calendario di GQ del 2001. Ha immortalato lo stile di Armani, Versace e Ferré, fino ai recenti lavori con Dolce & Gabbana, Pomellato, Giuseppe Zanotti.
Negli anni ’90 decide di raccontare la bellezza della natura in un mix tra fotografia etnografica, di moda e reportage. Viaggia alla scoperta di luoghi lontani, alla ricerca di un’antica spontaneità. A guidarlo il richiamo dell’arte e l’amore per Gauguin: gli stessi riferimenti con cui ritrae nel 2007 i soggetti per il calendario Epson. Le nature morte di Barbieri - scelte da David Bailey per un’esposizione al Victoria & Albert Museum di Londra e dal Kunstforum di Vienna - hanno un fascino particolare: non posano ma vivono, rivelando una costante ricerca della perfezione, quintessenza di uno stile prezioso e di un’eleganza naturale. 

martedì 17 dicembre 2013

ABOUT_Cinema e moda


















Cinema e moda: un’accoppiata che ha dimostrato nel tempo un’unitarietà d’intenti e una reciproca contaminazione.
Entrambe rappresentano forme d’arte: un’arte che si fa espressione di messaggi sociali, veicolando messaggi e codificando istanze e valori di un’epoca, che, tramite i fotogrammi di una pellicola o i modelli creati da magistrali couturier, prendono vita. Cinema e moda, quindi, come rappresentazioni emblematiche di persone, luoghi e momenti. Una missione ambiziosa, resa possibile, per l’appunto, dal legame indissolubile venutosi a creare tra di loro.
Riflettendo attentamente, l’abbigliamento riveste un ruolo fondamentale in un film, esprimendo l’essenza del personaggio. Su tutte le varie decadi cinematografiche svettano gli anni ’30 quale periodo di maggior influenza della settima arte sulla moda. E’ l’epoca in cui si afferma lo star-system hollywoodiano: il cinema diventa così lo strumento per antonomasia per diffondere mode e tendenze. Se lo stile di divi e divine entra di diritto a far parte della memoria collettiva, non altrettanto può dirsi per gli artefici, ossia i costumisti, spesso rimasti sconosciuti ai più. Un anonimato che solo nel 1948, quando viene istituito l’Oscar per i costumi, comincerà a essere scalfito. Agli albori del cinema, le attrici provvedevano personalmente al loro guardaroba, oppure, per i film in costume, ricorrevano alle sartorie teatrali. Col tempo, l’esigenza di dedicare qualcuno interamente a mettere in risalto il corpo della diva, diviene sempre più impellente: è così che nella seconda metà degli anni ’20, nasce a Hollywood la figura del costumista. All’epoca, quindi, più che le grandi firme della moda francese, sono i costumisti stessi a dettare tendenza: su tutti, doveroso ricordare Adrian (1903-1960), Irene (1901-1962) e Orry-Kelly (1897-1964). Un fenomeno che suona alquanto innovativo per l’epoca, al punto che in quasi tutti i grandi magazzini vengono creati i cosiddetti “reparti cinema” dove si possono acquistare a prezzi accessibili le copie di abiti apparsi nei film di successo.
Ad Adrian il plauso d’aver creato il look di due delle più grandi dive degli anni ‘30: Greta Garbo e Joan Crawford. In particolare, per nascondere la figura imperfetta di quest'ultima, caratterizzata da un busto imponente e da gambe poco slanciate, Adrian decide di enfatizzare la larghezza delle spalle attraverso tailleur dalle ingombranti spalline. La metamorfosi della Crawford, avvenuta sul set di Letty Linton (1932; Ritorno), ha un successo immediato. Nella stagione successiva all’uscita del film, i grandi magazzini americani Macy's vendono oltre 50.000 copie dell'abito a forma di triangolo capovolto indossato dalla diva nel film. Ancor più significativo, però, è osservare che l'anno precedente Elsa Schiaparelli aveva proposto un analogo modello senza suscitare nessuno scalpore.
E se Adrian ha creato lo 'stile Crawford', ecco Travis Banton ideare per Marlene Dietrich i celeberrimi tailleur dal taglio maschile, amatissimi dalla diva e più volte reinterpretati da un moderno Giorgio Armani, come da lui stesso evidenziato. “Ci sono molte coincidenze tra il mio stile e quello di Marlene”, sottolinea lo stilista, “una propensione all'androginia che non scade mai nel travestitismo. Di questo la Dietrich fu pioniera nella vita. Io lo sono stato nella moda”.
Numerosi gli artefici dell’eleganza hollywoodiana: Jena Louis è stato il geniale creatore dell’indimenticabile abito di satin senza spalline indossato da Rita Hayworth in Gilda (1946); Edith Head, fiera di 8 Oscar e 35 nominations, ha inventato lo stile esotico di Dolly Lamour che, in The jungle princess (1936; La figlia della giungla), lancia la moda dei sarong e dei tessuti orientali; e, sempre lei, ha ideato lo stile inquietante di Barbara Stanwyck in Double indemnity (1944; La fiamma del peccato).

Con gli anni ‘50 la funzione del cinema, complice la diffusione della televisione, cambia molto e con essa la concezione del divismo. I divi, con cui ci si identifica, continuano a rappresentare i principali modelli di riferimento dell'eleganza, anche se meno idealizzati e inaccessibili rispetto al passato. Emblematica, in tal senso, Marilyn Monroe che, con la sua bellezza procace e il suo erotismo 'naturale', si impone come modello da imitare per milioni di ragazze. Considerazioni analoghe valgono anche per il côté maschile con attori del calibro di Marlon Brando e James Dean che diffondo prepotentemente l'abbigliamento informale, caratterizzato da jeans, T-shirt e giubbotto, attraverso film come The wild one (1953; Il selvaggio) o Rebel without a cause (1955; Gioventù bruciata). Siamo nell’epoca dei divi dal corpo qualunque, che seducono non più perché straordinari ma perché come noi.  Non è tanto la gente che somiglia loro, ma piuttosto il contrario. Da modelli i divi si sono trasformati in riflessi.
Non a caso, infatti, i ruoli di Marilyn Monroe sono spesso quelli della ragazza della porta accanto. Un caso su tutti, il film di Billy Wilder: Seven year itch (1955; Quando la moglie è in vacanza). Al costumista William Travilla il merito d’aver scelto il vestito bianco che, sollevato da un colpo di vento sopra le grate della sotterranea, è divenuto uno degli abiti più noti della storia del cinema.
Accanto al fascino ingenuo della Monroe, si afferma in questi anni quello più sensuale e inquietante di Elizabeth Taylor. La costumista prediletta dall’attrice è Helen Rose che le realizza le mises di Cat on a hot tin roof (1958; La gatta sul tetto che scotta), tra le quali il famoso abito bianco dal corpetto riccamente drappeggiato incrociato sul davanti, la cui copia, posta in vendita nei grandi magazzini, realizza nel 1958 il record di incassi.
Contraltare del glamour hollywoodiano, uno tipicamente europeo, concentrato di femminilità e seduzione: Brigitte Bardot. A lei il plauso d’aver lanciato mode come la coda di cavallo, le ballerine e il reggiseno a balconcino a quadretti vichy.
Nel Belpaese, questa è l’epoca di Cinecittà e delle maggiorate uscite dai concorsi di bellezza. Silvana Mangano, Sofia Loren e Gina Lollobrigida diffondono l’immagine di una donna procace e prosperosa, con una sostanziale differenza rispetto allo stile delle maggiorate d'oltreoceano: la semplicità, complici gli abiti miseri da popolana presi in prestito dal neorealismo. Con l'affermarsi di Cinecittà e la nascita della nuova 'Hollywood sul Tevere', la capitale diviene un importante punto di riferimento per il mondo dello spettacolo internazionale, scenario privilegiato di quello stile di vita che diventerà famoso con il nome di Dolce Vita. Un clima di grande fervore per la città eterna, che stimola gli atelier a ingrandirsi e a divenire sempre più sofisticati. È il momento di Schubert, Gattinoni e delle Sorelle Fontana. Il celebre atelier di queste ultime diventerà addirittura lo scenario del film di Luciano Emmer, Le ragazze di piazza di Spagna (1952). Un’abitudine, quella di utilizzare il mondo della moda come ambientazione di set cinematografici, ripresa nel tempo: Roberta (1935) di William A. Seiter, Artists and models abroad (1936) di Mitchell Leisen, Mannequin (1938; La donna che voglio) di Frank Borzage, e successivamente Funny face (1957; Cenerentola a Parigi) di Stanley Donen, Designing woman (1957; La donna del destino) di Vincente Minnelli, o ancora Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni.
In netto contrasto al modello della maggiorata, ma pur sempre appartenente agli anni ’50, lo stile esile e raffinato di Audrey Hepburn, consacrato, nel 1954, con il personaggio di Sabrina nell'omonimo film di Billy Wilder. Un film chiave, quest’ultimo, per i rapporti tra moda e cinema in quanto, per la prima volta, con grande successo, la figura dello stilista si affianca a quella del costumista. In Sabrina questa presenza è così importante da divenire parte della narrazione: la Hepburn da modesta figlia di un autista si trasforma, complice un soggiorno parigino, in una sofisticata lady. La metamorfosi è resa evidente dai raffinati abiti indossati nell'ultima parte del film, rigorosamente firmati Hubert de Givenchy. Passa totalmente in secondo piano il fatto che il guardaroba dell'attrice - dagli abitini scollati a barchetta ai pantaloni stretti da torero - fino al fatidico soggiorno parigino sia stato creato da Edith Head; quello che conta è l'inscindibile legame venutosi a creare tra la Hepburn e Givenchy, un sodalizio rimasto inalterato nel tempo sia sul set sia nella vita privata. Il grande sarto veste la diva in film che hanno lasciato il segno nel campo della moda, come Funny face (1957) o ancor più Breakfast at Tiffany's (1961; Colazione da Tiffany). In quest'ultimo film l'attrice ha lanciato uno stile, tuttora reinterpretato dalla moda, con la sua innata eleganza fatta di tubini neri e di grandi occhiali da sole.

Gli ultimi decenni, oltre ad aver decretano il legame tra cinema e moda, basti pensare a Catherine Deneuve che, dopo essere stata vestita da Yves Saint Laurent sul set del film di Luis Buñuel Belle de jour (1967; Bella di giorno), ha mantenuto con lo stilista un sodalizio fino alla sua scomparsa.
In questi anni, l’immagine mitica del cinema è andata affievolendosi, complice la spasmodica affermazione dei mass media e il loro moltiplicarsi. I canoni di riferimento sono divenuti sempre più variegati, dando libero sfogo alla creatività personale. Tuttavia, il cinema ha sempre avuto un ruolo di spicco nel dettare le tendenze, dando vita a veri e propri fenomeni di costume. Nella seconda metà degli anni ’60, il successo del film di Arthur Penn Bonnie and Clyde (1967; Gangster story, con costumi di Theadora Van Runkle) influenza la moda in misura considerevole. All'indomani dell'uscita del film, Faye Dunaway - con il suo abbigliamento caratterizzato da basco, pullover aderente e gonna longuette - porta alla ribalta lo stile anni ‘30. Una tendenza al gusto del revival seguita qualche tempo più tardi e rivolta agli anni ’20 con la trasposizione cinematografica del romanzo di Francis Scott Fitzgerald The great Gatsby (1974; Il grande Gatsby). Sia gli impeccabili completi disegnati dallo stilista Ralph Lauren per Robert Redford nei panni di Gatsby, sia i vestiti indossati da Mia Farrow, hanno un enorme successo tanto da valere un Oscar per i costumi a Theoni V. Aldridge. Da ricordare, inoltre, il successo riscontrato nel 1977 dallo stile androgino di Annie Hall (1977; Io e Annie, costumi di Ruth Morley; alcuni abiti di Ralph Lauren e Jean-Charles de Castelbajac); il ritorno della sahariana dopo l'uscita sul grande schermo di Out of Africa (1985; La mia Africa, costumi di Milena Canonero), o ancora il revival degli anni ‘40 favorito da Evita (1996; costumi di Penny Rose) di Alan Parker.