Consueto appuntamento settimanale con il Ferré pensiero, alla scoperta di un universo in bilico tra vita e moda, realtà e fantasia, corpo e mente.
Si parte dal colore, strumento chiave per esprimere e trasmettere emozioni, e si prosegue con il percorso creativo dello stilista, devoto alla ricerca del contenuto piuttosto che del mero concetto nonché all'applicazione dell'architettura al mondo della moda. In mezzo, una bellissima parentesi targata fine anni '60/primi '70, con la preponderanza del '68 e il soggiorno in India, la prima vera esperienza lontana da ambienti consueti.
Il
Colore. Emozioni e colori – I colori delle emozioni
“Nella
mia ottica creativa, accanto alla forma
e alla materia, il colore rappresenta una categoria inscindibile rispetto
all’idea stessa dell’abito, sin dal suo primissimo abbozzo….”
“Io
sogno emozioni forti, incontri totali con acqua, vento, sabbia.”
“Immagino
l’abito come macchia di colore, come bagliore di luce.”
“Ancor
più della materia e della forma, i
colori sono per me lo strumento-chiave per esprimere e trasmettere le emozioni,
condividendole con chi sceglie i miei abiti…
Perché è del tutto naturale che nel colore
di un abito ognuno di noi rifletta i suoi gusti e la sua personalità, il suo
umore momentaneo e le sue aspirazioni, il suo desiderio di piacere e piacersi….”
“In
un orizzonte ideale che abbraccia paesaggi misteriosi, culture ed epoche lontane,
nelle mie collezioni si susseguono, si alternano e si confondono tra loro i
bagliori dei metalli e il pallore delle giade, i riflessi intensi delle pietre
dure, i lampi dei colori energetici e dei colori fluo, la delicatezza delle
sfumature dell’alba e dei fiori, i toni densi del fogliame equatoriale e le
fantasie incredibili dei mantelli animali…”
“La
mia fantasia è sempre in technicolor…”.
“Non
ci sono colori che non amo…”
“Ci
sono semmai gli amori di una vita e gli amori di una stagione…”
“Nelle
mie collezioni però si scorgono ogni anno sfumature e tonalità inedite…
“Sono
toni e nuances che formano a loro volta un linguaggio più sfaccettato, per
esprimere di volta in volta energia, poesia, magia, seduzione, purezza,
opulenza…”
“I
colori sono un elemento fondamentale del mio lessico di stile. Ritornano con
coerenza stagione dopo stagione, anche se sono capaci di infinite modulazioni…”
“Non
è difficile individuare i miei colori di sempre: il bianco, il nero, il rosso, i neutrali, il grigio, l’oro…”
Il
mio percorso creativo
“Il
primo ad essere sedotto da quello che faccio sono io stesso. Finché non sono
sedotto e convinto non mi ritengo appagato: è il contenuto che cerco, il concetto; se non riesco a trovare un
equilibrio tra quello che ho in mente e il risultato finale non sono
soddisfatto.”
“In fondo penso che bisogna saper inventare
delle storie e raccontarsele: il primo a cui le racconto è a me stesso,
quindi, finché non ho il ‘la’ per una storia, che sia fatta di una memoria, di
una scia, di una visione, la seduzione non c’è; anzi, lo chiamo ‘pedissequo
lavoro manuale’. Poi c’è la voglia del
femminile, del tondo: sono dei segni che nascono dalla testa, dalla mano.
Se per esempio reputo che la donna vestita da maschietto sia finita, non sono
più capace di vederla con la spalla dritta come quella di un blazer da uomo. Se
c’è, la spalla deve essere piccola, magari tonda, quindi il disegno mi porta a
fare un kimono. Però lo sforzo è fare in modo che il kimono sia nuovo, che
vesta, che non abbia quegli ‘impasse’ del tassello o altro. Poi si passa alla
materia, agli elasticizzati; i tasselli diventano dei fianchetti che salgono la
manica…”
“La
mia paura più grande è stata, tanti anni fa, quella di non riuscire a liberarmi
dalla necessità del creare per creare, di non riuscire ad avere una libertà
anche dal segno, dalla struttura dell’architetto. Sai che sei architetto, sai
che conosci la geometria, sai che puoi trovare delle soluzioni nuove, però di
fatto non è quello il primo problema. Quello che mi deve convincere è la
proporzione, la dimensione o l’’umore’ del vestito.”
“Il genio è stato quello di applicare al mio
lavoro l’educazione formale dell’architetto, associata anche a una concezione
di vita di qualità. Sono cose che ho trovato in me, che mi sono state insegnate
dai miei genitori, dalla mia famiglia… E poi dare spazio a questi gesti ampi,
che nascono anche dalla voglia di farsi notare. Non per far notare me stesso,
ma chi indossa i miei abiti; la grandiosità, il lusso agli estremi; che poi
sono ancora delle matrici, ma vissute in maniera diversa. Però sono stati
momenti determinanti del mio far moda: se non avessi avuto tutto questo, non
avrei saputo affrontare l’esperienza di dirigere l’atelier Christian Dior a
Parigi.”
Il
’68
“Nella
cultura di quegli anni ho trovato e messo a fuoco la mia attitudine
professionale: lavorare sulla materia,
dalle prime spille pop alle sperimentazioni sulla gomma. In seguito avrei
scoperto quanto mi fossero congeniali le forme religiose e non violente degli
abiti indiani, mentre quelle della cultura occidentale, mutuate dalle armature,
sono aggressive. Del resto sono figlio della poesia e della geometria, le mie
materie preferite al liceo. Ancora oggi, sono felice quando mi commuovo.”
India
“E’
stata la prima vera esperienza lontano da ambienti consueti, la necessità di
calarsi in una realtà completamente diversa rispetto a quelle conosciute. Ci
sono arrivato per la prima volta nel 1973, praticamente da solo, sapendo benino
l’inglese ma ovviamente senza la minima conoscenza di hindi o di altre lingue
indiane, e mi sono ritrovato alle prese con i problemi contingenti di una
quotidianità che, a casa, mi sembravano non esistere neppure. Con la necessità
di adattarsi al clima, all’alimentazione, ai ritmi. Le impressioni sono state
così forti che si conservano perfettamente nitide ancora oggi. Al mio arrivo a
Bombay, per un disguido non ho trovato le persone che dovevano accogliermi e
che sarebbero arrivati soltanto due giorni più tardi. Mi sono trovato
catapultato in una città immensa, brulicante, rumorosa, tumultuante dove è
quasi impossibile orientarsi. I cartelloni dei film, coloratissimi e altri come
gli edifici con i volti ammiccanti dei divi più conosciuti e l’intreccio
misterioso delle lettere dell’alfabeto hindi, gli animali liberi per la strada,
uomini e donne che arrancavano portando sulla testa, sulle spalle sui carretti
ogni genere di mercanzia e di pesi. Per sottrarmi alla valanga di suggestioni,
trascorrevo le ore libere davanti all’Oceano, leggendo e tracciando. A Delhi,
una sera, sono capitato davanti al Red Fort, nel pieno di un ritrovo di Sikhs,
uomini altissimi, a torso nudo, il corpo lucido di unguenti, che cantavano e
danzavano agitando le armi. Nel buio della notte vedevo i fuochi, i pugnali
lucenti, le pupille dilatate e incendiate dagli stupefacenti, di cui si sentiva
l’odore acre. E poi mi hanno conquistato le donne indiane: le mille sfumature
della pelle, i mille colori dei sari, i mille modi di drappeggiarli, ogni piega
con un suo significato, una sua accuratezza. Il valore simbolico dei monili, i
segni di identificazione con la propria casta: una dignità assoluta nei
sorrisi, negli sguardi, nei gesti. Una lezione fondamentale di vita e di stile,
senza la quale, probabilmente il mio percorso sarebbe stato profondamente
diverso”.
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