Cinema e moda. Due universi, due forme d’arte, due modi
per comunicare. Ma, al contempo, un’unica finalità d’intenti: trasformare in
immagini animate e tratti concreti, valori, istanze, sogni. Due mondi che
sembrano non parlarsi ma che, invece, nascondono una fitta trama di dialoghi e relazioni che affondano solide radici nel
passato. Un cinema alla moda in cui i due attori protagonisti non disdegnano
un reciproco interesse, influenzandosi a vicenda. Il grande Luchino Visconti, per esempio, ai suoi
attori faceva indossare non solo abiti e accessori autentici delle epoche che
andava a rappresentare – con buona pace di produttori e quanti prendevano
parte al sostentamento finanziario della pellicola – ma
addirittura quei particolari che mai gli spettatori avrebbero visto (come le
sottovesti). Una cura maniacale del
dettaglio perpetuata nella convinzione che la fedele riproduzione dei canoni
estetici avrebbe meglio coinvolto lo spettatore, calandolo nell’ideale
atmosfera propria di quegli anni. Prima del Maestro Visconti, nell’epoca del muto i couturier creavano
per le dive i costumi più bizzarri, destinati a divenire veri e propri
protagonisti non solo di una scena ma di un’intera sceneggiatura, spesso
scritta in modo tale che le protagoniste sfoggiassero abiti sempre diversi,
opulenti e magnificenti, tripudio della più amabile sartorialità. Una follia
che aveva portato i grandi sarti della fine degli anni ’20 a concepire lo stile
del bianco e nero, in un’ossequiosa venerazione del bianco e nero dello
schermo. Bisogna aspettare gli anni ’60
perché il rapporto tra cinema e moda si faccia più stretto e collaborativo,
celebrazione di due realtà che nel tempo hanno imparato a parlarsi e
confrontarsi, condividendo i rispettivi e più autentici aspetti. E se nel
cinema si registra un declino in termini d’imposizione d’immagine e di quelle
che saranno le tendenze, la moda –
soprattutto quella italiana - conquista la palma di arbiter elegantiae per quanto concerne i dettami di stile.
Un’eredità giunta fino ai giorni nostri, tanto che non di rado le major
hollywoodiane scelgono abiti rigorosamente made in Italy per i set
cinematografici, proprio in funzione del potere che hanno d’imporre un mito
iconografico. Vediamo così James Bond, alias Pierce Brosnan, in Brioni e l’American Gigolo Richard Gere in Armani (come dimenticare la scena in cui stende sul letto camicie e
cravatte, giacche e pantaloni, ton sur
ton s’intende, per accostare i pezzi giusti?!). Una delle prime esperienze cinematografiche per la moda di Re Giorgio
che da lì in poi ha vestito i protagonisti di oltre 80 film, tra i quali
svettano “Entrapment”, “Batman”, “Pulp
Fiction”, “Nirvana”. Un richiamo a
cui non si è fatto trovare impreparato nemmeno Missoni, che ha dato il suo
inconfondibile tocco a varie pellicole, da “Basic
Instinct” a “Pretty Woman”, da “Philadelphia” a “Qualcosa è cambiato”. Così
come Ermenegildo Zegna, Valentino, Versace, Fendi, Corneliani hanno “firmato” i
guardaroba della mecca del cinema…non è un caso, quindi, se “Il Diavolo veste Prada”, esempio gridato di name placement (il nome di uno stilista
è evocato già nel titolo della pellicola, seconda solo a “Colazione da Tiffany”) prima ancora che di product placement, tripudio di griffe e loghi, disseminati ovunque
e pronunciati da tutto il cast. Assodata l’egemonia assoluta dell’industria
filmica americana e della sua forza commerciale, vanno da sé la risonanza, la
visibilità e la promozione che deriva per la moda italiana. Spettacolo e moda
vanno sempre più a braccetto, condividendo fino all’inverosimile segreti e
valori, imbattendosi spesso in strade non proprio così semplici, come per
esempio, l’accaparrarsi le star
cinematografiche più note come testimonial per la propria griffe o, ancora,
curare in toto la vestizione di attori e
attrici in occasione di première e red carpet di tutto rispetto, dalla
serata degli Oscar in giù (Valentino docet).
Non meno importante - e quindi da non dimenticare – lo stretto
rapporto tra fotografia di moda e cinema, osservabile platealmente nella comunicazione
di molti stilisti, dove il desiderio di frammentazione e veridicità appaiono
fortissimi, al punto che talvolta le
immagini delle campagne pubblicitarie vengono tratte da veri e propri
cortometraggi girati ad hoc. In tal modo, le atmosfere patinate cedono il passo ai toni narrativi del cinema, in
una commistione di linguaggi sempre più sofisticatamente esplicita
(emblematica la storica campagna di Ferdinando Scianna per Dolce&Gabbana
che ha sottratto gli abiti all’epoca immortalata per farne autentici segni
semantici). Di pari passo la moda sempre
più dilagante dei videoclip “griffati”, vere e proprie forme espressive che
denotano l’ambizione delle Maisons a vestire le celebrities del mondo della
musica (Beyoncé, Madonna e Lady Gaga in testa).
Cinematograficamente
parlano, invece, sono davvero ben pochi i registi che si sono cimentati con
successo nel raccontare la moda. Vi è riuscito, per esempio, Win Wenders nel 1989 con “Appunti di viaggio su moda e città”,
incentrato sulla figura di Yohji Yamamoto, di cui viene esaltato il magistrale
lavoro.
Tuttavia, a
prescindere da chi sia riuscito e chi meno, soltanto quando moda e cinema arricchiscono reciprocamente i loro
contenuti, caricandoli di valori e significati, le immagini si fanno senza
tempo e diventano un lessico universale, in grado di narrare in pochi
fotogrammi l’essenza di tutta un’esistenza.
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