“La blusa candida sa essere leggere e
fluttuante, impeccabile e severa, sontuosa e avvolgente, aderente e strizzata.
Svetta a incorniciare il viso. Scolpisce il corpo per trasformarsi in una
seconda pelle. Letta con glamour e poesia, con libertà e slancio, la compassata
camicia bianca si rivela dotata di mille identità”. Così amava affermare Gianfranco Ferré, che battezzava la camicia bianca
– vero e proprio caposaldo nel guardaroba di una lady che si rispetti – “un termine di uso universale nel lessico
contemporaneo, che però ciascuno pronuncia come vuole”.
La camicia bianca da uomo è un capo che ha
sempre affascinato l’immaginario femminile, sposando le interpretazioni e le
rivisitazioni più varie, da quelle più tradizionali a quelle più innovative.
Numerose le sue fan, tra cui una schiera di dive e divine, a partire da una
sofisticata e anticonformista Katharine
Hepburn, che libera e indipendente amava giocare con i basici maschili al
punto di renderli la propria uniforme: la giacca dalle spalle squadrate, i
pantaloni e in testa lei, la camicia bianca, indossata a manifesto di una femminilità consapevole della propria
forza. Ironica e dissacrante, l’attrice era perfettamente in grado di
scherzare amorevolmente su se stessa, in primis, e sugli altri, così come sulla
fragilità degli esseri umani. Quella stessa fragilità quasi sussurrata nelle
sue pellicole più celebri, a fianco del compagno di una vita –
l’indimenticabile Spencer Tracy – con il quale ha duettato in numerosi film,
primo fra tutti l’adorabile Incantesimo
di George Cukor (1938), in originale Holiday:
una storia che enfatizza il potere eversivo dell’amore. Candido al punto giusto
per non cadere nell’ingenuità. Proprio come una camicia bianca, che forte e misteriosa introduce sempre
l’espressione di un’idea, spingendosi oltre la mera enunciazione di significati
apparenti e volgendo alla sostanza essenziale dei pensieri. Al pari di una
pagina bianca, invita alla mediazione e
alla riflessione, evocando innocenza e purezza e, di riflesso, coscienza,
conoscenza, speranza, benevolenza. Il bianco è però anche sinonimo di
pulizia, rigore e razionalità. E, in effetti, nessun altro capo del guardaroba
ha lo stesso potere di una camicia bianca di tradurli in concetti concreti,
rappresentati da forme, volumi e tagli, mise
en place di estro e creatività. Una
forza espressiva con la quale la camicia bianca traduce anche i nostri
sentimenti e le nostre emozioni: vige infatti la raccomandazione di “indossarla a seconda dell’umore”. La sua apparente neutralità diviene cosi la
somma delle possibili intersezioni tra il desiderio di essere se stessi e quello
di essere nel mondo senza forzature, eccessi o stravaganze. Iconica quel
tanto che basta per esulare dallo stereotipo, multiforme ma connessa
all’uniforme, la camicia bianca è
perfetta in quanto tale, ovvero talmente universale da essere interpretata da
ciascuno a suo piacimento, caricandola di volta in volta di significati,
emozioni e pensieri. Disegnata, ripensata e riletta in mille punti di
vista, tutti ugualmente validi, essa risplende sempre fulgida nella sua
essenza. Polivalente ma non ambigua, concentrato concettuale multiforme di
sex-unisex, uno dei tanti aspetti del
suo potere fascinoso è legato al fatto della sua valenza democratica: in
ogni caso, mantiene inalterata la perfezione di cui è naturalmente dotata.
Nulla di più formale – tanto da indurre gli uomini e le donne dello UAW, i
sindacati americani, a festeggiare l’11 febbraio il White Shirt Day per sottolineare l’uguaglianza tra gli impiegati, i
white collars, con i loro datori di
lavoro – ma al tempo stesso capo informale per antonomasia in grado di risolvere
l’annoso problema della quotidiana indecisione vestimentaria. Autonomamente estetica, non soggetta alle
mode, comunica libertà, indipendenza, forza e purezza. Infinite le movie version che la storia del cinema,
ma non solo, ci offre. Classica come quella di Grace Kelly in La finestra di
fronte (1954); anarchica come quella di Patti Smith fotografata da Robert Mapplethorpe sulla cover di
Horses (1975); sexy come quella di Kim
Basinger in Nove settimane e ½
(1986) o androgina come quella di Uma
Thurman in Pulp Fiction (1994). Celebri
personificazioni che potrebbero proseguire all’infinito spaziando nei meandri
del panorama cinematografico: da una sofisticata Lauren Bacall degli anni ’40 a una misteriosa Anne Bancorft ne La frenesia
del piacere (1964), da Ava Gardner
ne L’ultima spiaggia (1959)
all’italianissima Monica Vitti in Modesty Blaise – La bellissima che uccide
(1966), passando per Isabella Rossellini
in Appuntamento con la morte (1984), Kristin Scott Thomas ne Il paziente inglese (1996) e Scarlett Johansson in Black Dahlia (2006).
Mille
interpretazioni che hanno accompagnato le dive anche fuori dallo schermo quando
l’hanno scelta come capo passepartout
per il giorno come per la sera, per day look come per prestigiose occasioni
mondane. Nell’enfatica esaltazione della sua versatilità e della capacità
di resistere inalterata al passare del tempo, denotando uno chic coraggioso e
contemporaneamente intimo. Sharon Stone
l’ha indossata per la notte degli Oscar su un abito principesco di Vera Wang,
così come Ali McGraw per la stessa
occasione nel 2001. Primo strato in cui racchiudiamo il nostro corpo - la
parola shirt deriva dall’antico
termine anglosassone sherte,
l’indumento più nascosto a contatto con la nostra pelle -, la camicia bianca esalta e allo stesso tempo custodisce la nostra
personalità, assurgendo a un vero e proprio oggetto culturale in quanto
espressione simbolica di un oggetto incorporato in una forma. E proprio
quando significati e forme diventano un tutt’uno, dispiegando la loro
infinitezza, riflettono l’effettiva identità di chi la indossa.
Grazie per l'articolo e i riferimenti!
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