C’era
una volta la moda, fatta di costumi, modelli, figurini e riviste specializzate.
Un giorno, un agiato ed elegante signore italiano decise di metterla in scena,
facendo sfilare modelle in carne e ossa con indosso le strepitose creazioni di
altrettanto strabilianti couturier.
Correva
l’anno 1951. In una Firenze dell’epoca, desiderosa d’imporsi nella scena del
costume internazionale, avveniva la svolta forse più significativa nella storia
dello stile universalmente intesa.
Ma procediamo con ordine…
Fino
alla fine dell’800, le ultime novità in fatto di moda e tendenze, circolavano
in Europa attraverso la stampa specializzata, i figurini, i dipinti che
ritraevano le nobildonne e, difficile a credersi, le bambole. Quest’ultime, corredate di un guardaroba
di tutto rispetto da fare invidia a una lady dell’alta società e talvolta
realizzate a grandezza naturale, erano lo strumento di cui si servivano le
sartorie per esporre al pubblico le proprie creazioni.
Il
primo a infondere un segnale di cambiamento rivoluzionario nel comunicare le
ultime tendenze è stato Charles Frederick Worth. Considerato il padre dell’haute couture, Worth introdusse innovazioni, quali
l’utilizzo delle modelle, il concetto di collezione, l’etichetta firmata, fondamentali
per identificare con precisione una creazione, tanto da passare alla storia,
tra le altre cose, come primo trend
setter, un termine – o per meglio dire, un concetto – poco usuale per
l’epoca ma sicuramente chiave di volta per gli anni che sarebbero seguiti. A
differenza del sarto, Worth non
confezionava i vestiti, assecondando il gusto delle clienti: al contrario, egli
stesso era arbitro d’eleganza, stabilendo quello che secondo lui avrebbe fatto
tendenza nel senso del vestir bene femminile.
Le
sfilate divengono così il segnale cruciale di un cambiamento profondo nel modo
di produrre e comunicare la moda, caratterizzato da un graduale
passaggio dall’abito identificato con un prodotto esclusivo, eseguito su
commissione, confezionato in un unico esemplare, all’abito creato per una
clientela numerosa – Worth vestiva le donne dell’alta società europea e
americana – e quindi realizzato ricorrendo alla standardizzazione di alcune
parti, alla limitazione della scelta del tessuto a una gamma di poche varianti
e a una personalizzazione ristretta a semplici applicazioni.
Seguono
gli anni della Belle Époque e la sfilata adotta un nuovo linguaggio per
comunicare le ultime novità della moda. Nel 1912, Paul Poiret, organizza
una tournée nelle principali capitali europee per presentare i suoi modelli.
Fiero del successo e dell’apprezzamento riscontrati, l’esperimento viene
ripetuto l’anno successivo negli Stati Uniti. Per la prima volta la sfilata esce dagli atelier e incontra il suo
pubblico dal vivo, trasformandosi in un evento di grande effetto che richiede
il coinvolgimento di specifiche professionalità. È l’inizio di un secolo, per l’Alta Moda parigina, costellato dalle
sfilate-spettacolo, per le quali vengono prodotte collezioni ad hoc, ampiamente
diverse da quelle realizzate per la vendita.
Ma
è in Italia, nella patria dello stile e del buon gusto per eccellenza, quella
che diverrà la culla del prêt-à-porter, che
avviene la vera svolta. Qui la storia
delle sfilate ha inizio per merito di Giovanni Battista Giorgini, uomo dell’alta società, caratterizzato per natura da un
senso infuso dell’eleganza e del vestir bene. Sino ad allora le sfilate si sono
svolte all’interno dei teatri o dei grandi magazzini, non riuscendo però a dare
alla moda italiana quella giusta spinta alla conquista internazionale. Alla celeberrima sfilata del 1951,
allestita nella Sala Bianca, per la prima volta assiste un selezionato pubblico
straniero, composto da giornalisti e buyer dei principali department store
americani. Per la moda italiana il
1951 rappresenta l’anno della consacrazione nella scena internazionale del
costume: una conquista legittimata da rare doti, parti integranti del suo
essere più profondo e che la distinguono per eccellenza e unicità.
Nel corso degli
anni ’60 l’appealing delle sfilate fiorentine lentamente s’indebolisce. Le case
di moda romane cominciano a servirsi anche del cinema come vetrina privilegiata
in cui proporre le proprie creazioni,
facendole indossare da star che diverranno icone di stile. Roma diviene così capitale dell’Alta Moda, mentre Firenze si
specializza nella presentazione delle collezioni di boutique e maglieria,
ospitando dal 1972 in poi Pitti Uomo, importante rassegna di abbigliamento e
accessori maschili.
Proprio in quel periodo si registra un altro significativo
cambiamento, paragonabile a quello del 1951: alcuni creatori di moda – Walter Albini, Missoni, Krizia, Ken Scott –
lasciano le passerelle fiorentine per sfilare a Milano. In meno di un decennio il capoluogo
lombardo diventa la capitale del prêt-à-porter. Nel 1979, il calendario degli appuntamenti
di moda milanese si presenta articolato in tre eventi, almeno idealmente complementari
tra loro: Milano Collezioni, vetrina in cui le griffe più
prestigiose del settore presentavano le loro collezioni, Milanovendemoda
di carattere squisitamente commerciale, e Modit, che si caratterizza per
l’enfasi posta sul rapporto stilismo e industria.
Da allora ai giorni nostri le evoluzioni
sono state continue e repentine, sempre e comunque votate all’esaltazione
dell’eccellenza italiana. I nomi si sono susseguiti; i calendari si sono
infittiti, scontrandosi spesso con quelli di altre manifestazioni
internazionali; si sono sviluppate vere e proprie fashion week, quintessenza di
sfilate, eventi collaterali e tendenze, volte a celebrare il saper fare
creativo e produttivo; il timing si è scandito all’inverosimile, con
l’introduzione di pre-collezioni, anteprima di quelle che saranno le tendenze
delle successive linee creative.
Una summa esplicativa e concertata della
moda nella sua complessità, tripudio d’idee, cultura e dettami stilistici.
Perché la moda parla: di sé, di noi e del
nostro tempo. E ignorarla è inutile, se non addirittura impossibile.
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