Chic…un
termine tanto utilizzato oggi da annoverarlo nel lessico comune, in modo più o
meno serio, in bilico tra effettive constatazioni di status quo e metaforiche
estensioni semantiche. Ovvio che, in ogni caso, gioca un ruolo la componente
figurata che accompagna l’esclamazione nella sua definizione profonda. Se il
suo suono può assurgere a una o l’altra questione è un discorso, ma per quanto
attiene la sua origine etimologica è opportuno fare un po’ di chiarezza visto
che vanta un passato un po’ travagliato, combattuto tra culture diverse che ne
rivendicano la paternità.
Il dizionario etimologico Petit Robert, infatti,
scrive che il termine d’oltralpe deriva
dal tedesco schick (abito) e che i francesi, a partire dai primi anni del
secolo scorso, hanno cominciato a usarlo - scrivendolo chique - per identificare
la disinvoltura, il savoir-faire e l’eleganza. Di abiti così come di
portamento. Tuttavia, il Larousse dei primi del ‘900 indica un’altra ipotesi,
tutta francese ça va sans dire, che risale addirittura ai tempi di Luigi XIII
(siamo agli inizi del ‘600) quando a Corte, per definire un uomo molto abile
nel destreggiarsi con la legge, si usava chic, come diminutivo della parola
chicane che, anticamente, significava cavillo, arzigogolo, passaggio a zig
zag, ben lontano dall’attuale interpretazione che indica una doppia curva a “esse”, tipica dei circuiti
di Formula 1 per rallentare la velocità. Nel tempo, l’implicazione semantica legata al termine chic è mutata sino ad
assumere quella connotazione squisitamente elegante con cui di diritto, insieme
ad altre regole della moda, si è aperta un varco nelle abitudini lessicali
italiane, ma non solo, in termini di stile e buon gusto. Chic,
tremendamente chic, adorabilmente chic e tutti gli avverbi che dir si voglia, accompagnano l’etimo del vestir bene e
dell’atteggiarsi in determinati modi: parvenze naturali, s’intende, e mai
ostentate. Con ogni probabilità il suo debutto in società risale all’epoca
della Belle Epoque, se non
addirittura prima, sotto l’egida delle
signore imbevute di cultura francese, convinte che per fare di una ragazza una
dama della buona società fosse indispensabile assumere qualche sfumatura française, volta a denotare una classe
inconfondibile. D’altra parte, le donne che appartengono a questo rango
sociale, possiedono indumenti che non
possono chiamare in altro modo se non in francese: dalla fascinosa guêpière al peignoir, indossato per farsi pettinare dalla cameriera, alla vaporosa liseuse, una giaccheta di seta bordata di pizzi,
dello stesso colore della camicia da notte, realizzata in impalpabile chiffon o
addirittura interamente in struzzo. È
l’epoca in cui il corredo di una sposa di buona famiglia prevede una serie di
abiti da indossare nelle diverse ore e occasioni del giorno: oltre ai
vestiti lunghi da sera, vi sono quelli habillé,
ribattezzati qualche anno più tardi cocktail dress. La cultura francese - e quindi anche lo chic – ha dominato l’alta
borghesia italiana fino al secondo conflitto mondiale (vano ogni tentativo
fascista di italianizzare i capisaldi di stile d’oltralpe, come per esempio la
“ragazziera”, traduzione alquanto
ridicola della garçonniere), proiettando il suo raggio d’azione però
anche oltre, visto che negli anni ’50 è ancora la Francia a dettare legge in fatto
di moda o meglio di couture, schierando maestri di chic come Chanel,
Balenciaga, Balmain e Dior e lanciando la moda delle aigrette, lunghe piume
sottili che seguono la curva del viso, da indossare in testa la sera. Elisir di
lunga vita per lo chic, che ha traghettato il termine e il suo carico valoriale
oltre il confine estremo del ’68, la rubrica di costume tenuta da Camilla Cederna su L’Espresso. Ora lo chic
si destreggia tra settimane della moda, passerelle, collezioni stagionali e
street style: un’accelerazione
spasmodica che ha portato le griffe all’esasperata ricerca di una pietra
filosofale dello stile, nell’invocazione esasperata di uno chic che fu. Simbolo
di un bel tempo andato, irripetibile nella sua essenza così come nelle sue
forme.
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