Cecil Walter Hardy
Beaton, fotografo inglese,
padre del ritratto dell’alta società internazionale. Comincia a scattare
immagini in tenera età quando ancora frequenta la High School Harrow di Londra,
per poi proseguire al St John’s College di Cambridge. Il suo stile denota un volo pindarico nelle ispirazioni artistiche che
passano dal manierismo quasi vittoriano di prima istanza – Dafne du Maurier, su
tutti – alle pose “arrabbiate” del pittore Graham Sutherland e del poeta Auden.
Amante del buon gusto e grande snob, è
attratto dai personaggi famosi dei quali costruisce con cura i ritratti.
Per decenni in Inghilterra ricopre il ruolo di fotografo ufficiale di corte, contribuendo a creare l’immagine di Mary,
la regina madre, e di Elisabetta II. Nel frattempo, negli anni ’30, già celebre per i servizi di moda apparsi su Vogue,
conosce e conquista Hollywood: infinita è la serie di divi e divine che
hanno posato davanti al suo obiettivo per Vanity Fair. Tra questi, Buster Keaton, Gary Cooper, Lillian Gish,
Vivien Leigh, Norma Shearer, Johnny Weissmuller, Marlene Dietrich, Marlon
Brando, Audrey Hepburn, Frank Sinatra e il suo clan, Marilyn Monroe e,
soprattutto, Greta Garbo. Come da
lui stesso affermato, l’unica sua grande passione femminile, tanto da
chiederle, invano, nel 1946, di sposarlo. Negli anni ’40, Beaton, che ha fatto
della frivolezza e della raffinatezza i caposaldi della sua vita artistica e
personale, viene chiamato alle armi: dapprima, gli viene chiesto di scattare le fotografie ufficiali della regina da
mandare alle truppe e, poi, di ritrarre Winston Churchill alla scrivania
ordinatissima, sigaro in bocca e sguardo sornione. Quasi inconsapevolmente, attraverso la sua arte figurativa, ha
contribuito a una presa di posizione dell’America nell’ambito del secondo
conflitto mondiale: la sua immagine di una bambina londinese, ferita
durante un bombardamento e ricoverata in ospedale, viene pubblicata sulla
copertina di Life, smuovendo le truppe americane all’entrata in guerra alla
volta della Liberazione. Numerosi e
celeberrimi i suoi lavori messi a punto durante il periodo bellico: dalla
metropolitana di Londra, divenuta rifugio antiaereo, alla documentazione dei
combattimenti in Nord Africa e Estremo Oriente quale inviato del ministero
dell’Informazione. Finito il conflitto, Beaton
può tornare al suo tanto adorato mondo internazionale e alla sua passione per
l’arte figurativa, che ora declina anche nel cinema e nel teatro, ricoprendo il
ruolo di costumista: Anna Karenina
nel 1947 con Vivien Leigh; My fair lady
a Broadway nel 1956 e, successivamente, l’omonimo film con Audrey Hepburn; Gigi nel 1957. Nominato baronetto nel
1972, realizza il suo ultimo servizio per Vogue sulle collezioni di moda
dell’autunno 1979. Deciso a non fermarsi mai, Beaton ha sempre eseguito il suo lavoro con piglio e garbatezza,
mettendo in luce gli aspetti più veritieri della realtà, colorandoli però
di una dolce sfumatura, con la quale edulcorarli alla visione del grande
pubblico. Le sue immagini rivelano una
bellezza tutta particolare, parlano e dicono, coinvolgendo lo spettatore in una
visione d’insieme e di dettaglio, di denuncia e di affermazione. Nessun
dettaglio è lasciato al caso, ogni cosa
ha motivo d’essere e d’esistere nel suo quadro d’insieme fotografico. Come affermava Truman Capote “è la straordinaria intelligenza visiva che
permea le sue fotografie ciò che rende l’opera di Beaton unica. Gli storici del
prossimo secolo gli saranno ancora più grati e riconoscenti di noi”. Un
talento visionario, il suo, che ha trovato una valida corrispondenza in una
resa formale pulita e priva di ostentazioni: Beaton rappresenta la realtà, così come è, senza filtri visuali o
metaforici. Il fenomeno viene colto nella sua essenza emozionale e come tale
restituito allo spettatore, che può sentirne tutta la carica valoriale, vivendo
in prima persona, anche a distanza di tempo, l’istante del momento. Perché,
come affermava lo stesso Beaton, quello che conta nella vita è osare, essere
differenti e, soprattutto, non essere mai pratici. In altre parole, lottare
contro ciò che è ordinario: le routine, infatti, pur avendo predestinate
finalità, sono le nemiche assolute della grande arte.
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