Bisogna
spingersi fino all’infanzia per cercare l’immaginario artistico che distingue
lo stile fotografico di Deborah Turbeville. Un approccio inedito, il suo, alla moda e al ritratto sociale,
impiegato perfino per realizzare una campagna pubblicitaria. Un linguaggio
atemporale, ma, al tempo stesso, onirico e allegorico, che contraddistingue
scatti immediatamente riconoscibili, sgranati (effetto ottenuto manipolando i
negativi con procedimenti laboriosi e alchemici). I volumi si fanno così profondi,
indefiniti e sfuggenti.
Questa,
in estrema sintesi, la cifra di Deborah Turbeville, alla quale nel 2009 “Women’s Wear Daily” ha assegnato il
primato di aver trasformato la
fotografia di moda in un’autentica forma d’avanguardia artistica. Gli abiti sono appena riconoscibili,
essendo portati a un’essenzialità di segno. Idem dicasi per i volti delle modelle, fluttuanti su
interni ombrosi e decadenti, stagliati su paesaggi interiorizzati. Le donne immortalate dal suo obiettivo sono
traslate in una chiave allegorica e soffusa, intrecciando melanconia,
sensualità e abbandono. Le cromie sono consunte e tendono a un’infinità di
gradazioni.
Alta,
magra, quasi ascetica, parca di parole e di gesti, dedita al dovere. Distante
ma subito presente con uno humour ficcante. Meticolosa e devota. Deborah
Turbeville a Stoneham, Massachussetts, nel 1932, da una famiglia agiata e
colta. Cresciuta a Boston, frequenta l’istituto Brimmer and May, da lei
considerato fonte di future ispirazioni: cieli plumbei, brume oceaniche,
tempeste di neve, vetrine offuscate, ecc. Abbandonati gli studi alla University
of Georgia, nel 1957 approda a New York
dove diviene simple model e assistente della stilista Claire McCardell, che la
presenta a Diana Vreeland, all’epoca fashion editor per Harper’s Bazaar, la
quale la avvierà verso altra carriera. Nel
1963 Deborah entra come redattrice a Harper’s Bazaar, dove lavora sotto l’egida
di Marvin Isreal e conosce e frequenta Diane Arbus, Hiro e Rchard Avedon.
Deborah
approda in seguito a Mademoiselles e a Ladies’ Home. Nel frattempo, acquistata
una Pentax munita di lente Zeiss, comincia a scattare. Nel 1966 esordisce come fotografa professionista con un reportage live
in Jugoslavia. Nel 1978 pubblica il primo dei suoi libri pluripremiati “Wallflower”. A questo ne seguiranno
diversi, anche se l’oggetto di culto è senza dubbio “Unseen Versailles”, nato nel 1980 per volere di Jackie O:
un volume che esplora la residenza dei monarchi francesi dell’Ancien Régime,
mixando gioia barocca e abbandono.
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