Leggendo un’interessante intervista al neuroscienziato Boris Cyrulnik, mi sono soffermata a riflettere sulla vergogna e più precisamente sul suo significato e sul suo valore nella società odierna. Cyrulnik ha infatti dedicato molti studi alla portata degli eventi dolorosi nella nostra vita, elaborando la teoria della resilienza, ossia la capacità di superarne da sé gli episodi tragici. Una capacità tuttavia impedita dalla vergogna.
Ma che cosa è realmente la vergogna? È qualcosa di cui vergognarsi (per utilizzare un gioco di parole) oppure è un sentimento che ogni essere umano prima o poi nella vita incontra e conosce e quindi, come tale, va sperimentato, accettandone ogni implicazione? E che cosa significa provare vergogna? E per cosa e rispetto a chi?
Come sempre entrano in gioco due piani dimensionali: quello umano e quello contingentale. Risiede silenziosamente nella vita di ciascuno di noi e quando meno ce l’aspettiamo irrompe in modo chiassoso interpellandoci con mille domande, ponendo in dubbio ogni nostro fondamento e minando tutte le nostre convinzioni. È qualcosa che ci smuove nel profondo e che mostra a noi e agli altri la nostra natura più debole. Tutti l’hanno provata – chi più, chi meno – ma in pochi l’hanno ammessa, credendo sia qualcosa da tenere nascosto, quasi fosse un disonore verso se stessi o, altresì, sinonimo di un’estrema fragilità in netto contrasto con la sicurezza virile richiesta dalla società contemporanea.
Si può affermare che nasca dall’introspezione microcosmica che ciascuno di noi fa della percezione macrocosmica che crede che la società abbia di lui. In altre parole, l’idea che credo che gli altri abbiano di me genera la vergogna. Uno sguardo, una frase, una parvenza…qualsiasi cosa dell’altro rivolta verso di me che mi evoca scarsa considerazione può provocarmi un simile disagio.
Ma se così è, allora essa è strettamente legata al contesto culturale, soggetto a sua volta a non irrilevanti mutamenti nel corso del tempo. Dapprima essa riguardava primariamente una sfera personale. Era associata ad aspetti più ancestrali e rivolti all’etica morale. Ci si vergognava perché per esempio si andava contro un insegnamento o perché non si rispettavano quelle che erano le regole del vivere secondo coscienza. Oggigiorno, attinge a sfumature decisamente più narcisistiche: il focus d’attenzione è l’io e mi vergogno perché non riesco a coincidere pienamente con quello che è l’esempio standardizzato - ma socialmente riconosciuto - di uomo realizzato, fabbricato il più delle volte dal mondo dell’industria, nell’inseguimento di una misera logica commerciale. Mi vergogno se non viaggio con una super car, se non ho l’ultima tendenza tecnologica, se non seguo i dictat di un’apparenza gridata da ogni dove.
Ma c’è qualcuno che non prova vergogna? Oggi forse più di ieri, dal momento che l’evoluzione economica, culturale e sociale ha consentito a molti di conquistare il podio dell’affermazione. Da qui una notevole sicurezza con cui si pensa solo a se stessi e ci si crede invincibili e inattaccabili, evitando così di considerare l’opinione altrui.
Appurato quindi che la vergogna non sta scomparendo ma ha cambiato modo di presentarsi e solo in taluni casi sembra aver battuto la retroguardia, bisogna darle il merito di segnare il limite della moralità. Un limite che ci dice cosa si può fare o dire e cosa va evitato perché moralmente insano. Pena la caduta verso una cieca ed egoistica perversione, negli inferi del nulla, dove tutto perde di valore e l’altro non esiste, né con i suoi giudizi lapidari né tanto meno con la sofferenza.
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