Adora scattare in analogico; non ritocca le
fotografie; ha comprato la sua prima Reflex Woiglander 35 mm a rate; reputa
moderne icone di stile Uma Thurman e Virna Lisi; rimpiange di non aver
fotografato gli oggetti del palazzo della Regina a Tananarive in Madagascar. Gian Paolo Barbieri: l’occhio, il cuore, la mente della fotografia, come amava definirlo
l’amico Gianfranco Ferré. Un uomo dal gusto estetico eccelso, capace di
creare con la sua arte un sogno che
evoca un mito: quello della moda.
Ripercorre la sua vita artistica è come
fare un viaggio nel tempo, a bordo di quello stesso obiettivo che ha
immortalato gli albori del prêt-à-porter
firmati Valentino, Versace, Armani e Ferré. Milanese di nascita, Barbieri approda alla fotografia da
autodidatta, mosso dalla passione per il cinema che lo conduce,
giovanissimo, nella Roma della Dolce Vita. Qui fotografa aspiranti divi,
mostrando un talento naturale per la fotografia di moda, un’attività
sconosciuta nell’Italia dell’epoca in cui non esistono riviste patinate né,
tantomeno, la moda propriamente detta. Si
trasferisce a Parigi e diviene assistente di Tom Kublin, fotografo di Harper’s
Bazaar: un incontro di soli 20 giorni - interrotto dalla morte dello stesso
Kublin - ma che ne segna la carriera. Il suo impegno nella moda s’intensifica: nel 1963 pubblica alcune immagini su Novità
- rivista che nel 1966 diventa Vogue Italia – iniziando la collaborazione
con la Condé Nast con cui in seguito scatta per l’edizione francese e americana
di Vogue. Non esistendo ancora la figura del fashion editor, deve inventare il setting e pensare alle pettinature, al trucco, ai
gioielli, ricorrendo spesso a materiali insoliti: emblematica la cover per
la quale utilizza come orecchini delle
palline da ping pong dipinte con la madreperla. Un talento, il suo, con cui
vince il Premio Biancamano come miglior
fotografo italiano (1968) e rientra tra i quattordici migliori fotografi di
moda internazionali secondo il settimanale tedesco Stern (1978). Nel 1964 apre uno studio a Milano e qualche
anno più tardi inizia il sodalizio con il prêt-à-porter.
Dall’incontro con Walter Albini capisce l’importanza di entrare nella mente
dello stilista e diventarne l’occhio attraverso la macchina fotografica. Un’ambizione che diviene realtà con
Valentino, con il quale inventa l’attuale concetto di campagna pubblicitaria,
contribuendo, al contempo, a definire l’ideale femminile dello stilista: le collezioni vivono grazie allo stile
fotografico che ne interpreta le idee e alle modelle che ne personificano lo
spirito. La prima campagna è
preparata in studio e Barbieri dimostra la sua visionaria capacità di creare
ambienti e situazioni: quintali di semolino divengono le dune di un deserto in
cui si staglia una meravigliosa Mirella Petteni. Da allora gli scatti con volti
noti si susseguono: una seducente Jarry
Hall su fondo astratto con abito nero dalla profonda scollatura; una
memorabile Veruschka coperta da un
velo sottile, look ripreso anni dopo da Herb Ritts; una sofisticata Audrey Hepburn che per timore di sporcare
il fondale bianco si portava le pantofole da casa; un’ammaliante Monica Bellucci, protagonista del
calendario di GQ del 2001. Ha
immortalato lo stile di Armani, Versace e Ferré, fino ai recenti lavori con
Dolce & Gabbana, Pomellato, Giuseppe Zanotti.
Negli anni ’90 decide di raccontare la
bellezza della natura in un mix tra fotografia etnografica, di moda e reportage.
Viaggia alla scoperta di luoghi lontani, alla ricerca di un’antica spontaneità.
A guidarlo il richiamo dell’arte e
l’amore per Gauguin: gli stessi riferimenti con cui ritrae nel 2007 i
soggetti per il calendario Epson. Le
nature morte di Barbieri - scelte da David Bailey per un’esposizione al
Victoria & Albert Museum di Londra e dal Kunstforum di Vienna - hanno un
fascino particolare: non posano ma vivono, rivelando una costante ricerca
della perfezione, quintessenza di uno stile prezioso e di un’eleganza naturale.
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