Cinema e moda: un’accoppiata che ha dimostrato nel tempo un’unitarietà d’intenti e una
reciproca contaminazione.
Entrambe rappresentano forme d’arte: un’arte che si fa
espressione di messaggi sociali, veicolando messaggi e codificando istanze e
valori di un’epoca, che, tramite i fotogrammi di una pellicola o i modelli
creati da magistrali couturier, prendono vita. Cinema e moda, quindi, come rappresentazioni emblematiche di persone,
luoghi e momenti. Una missione ambiziosa, resa possibile, per l’appunto,
dal legame indissolubile venutosi a creare tra di loro.
Riflettendo attentamente, l’abbigliamento riveste un ruolo
fondamentale in un film, esprimendo l’essenza del personaggio. Su tutte le
varie decadi cinematografiche svettano gli anni
’30 quale periodo di maggior influenza della settima arte sulla moda. E’
l’epoca in cui si afferma lo star-system
hollywoodiano: il cinema diventa così lo strumento per antonomasia per
diffondere mode e tendenze. Se lo stile
di divi e divine entra di diritto a far parte della memoria collettiva, non
altrettanto può dirsi per gli artefici, ossia i costumisti, spesso rimasti
sconosciuti ai più. Un anonimato che
solo nel 1948, quando viene istituito l’Oscar per i costumi, comincerà a essere
scalfito. Agli albori del cinema, le
attrici provvedevano personalmente al loro guardaroba, oppure, per i film in
costume, ricorrevano alle sartorie teatrali. Col tempo, l’esigenza di
dedicare qualcuno interamente a mettere in risalto il corpo della diva, diviene
sempre più impellente: è così che nella
seconda metà degli anni ’20, nasce a Hollywood la figura del costumista.
All’epoca, quindi, più che le grandi firme della moda francese, sono i costumisti stessi a dettare
tendenza: su tutti, doveroso ricordare Adrian (1903-1960), Irene (1901-1962) e Orry-Kelly (1897-1964). Un fenomeno che suona alquanto innovativo per l’epoca, al punto
che in quasi tutti i grandi magazzini
vengono creati i cosiddetti “reparti cinema” dove si possono acquistare a
prezzi accessibili le copie di abiti apparsi nei film di successo.
Ad Adrian il plauso d’aver creato il look di due delle più
grandi dive degli anni ‘30: Greta Garbo e Joan Crawford. In particolare, per
nascondere la figura imperfetta di quest'ultima, caratterizzata da un busto
imponente e da gambe poco slanciate, Adrian decide di enfatizzare la larghezza
delle spalle attraverso tailleur dalle ingombranti spalline. La metamorfosi
della Crawford, avvenuta sul set di Letty Linton (1932; Ritorno),
ha un successo immediato. Nella stagione successiva all’uscita del film, i
grandi magazzini americani Macy's vendono oltre 50.000 copie dell'abito a forma
di triangolo capovolto indossato dalla diva nel film. Ancor più significativo,
però, è osservare che l'anno precedente Elsa Schiaparelli aveva proposto un
analogo modello senza suscitare nessuno scalpore.
E se Adrian ha creato lo
'stile Crawford', ecco Travis Banton ideare per Marlene Dietrich i celeberrimi tailleur dal taglio maschile,
amatissimi dalla diva e più volte reinterpretati da un moderno Giorgio Armani,
come da lui stesso evidenziato. “Ci
sono molte coincidenze tra il mio stile e quello di Marlene”, sottolinea lo
stilista, “una propensione all'androginia
che non scade mai nel travestitismo. Di questo la Dietrich fu pioniera nella
vita. Io lo sono stato nella moda”.
Numerosi gli artefici
dell’eleganza hollywoodiana: Jena Louis
è stato il geniale creatore dell’indimenticabile abito di satin senza spalline
indossato da Rita Hayworth in Gilda
(1946); Edith Head, fiera di 8 Oscar e 35 nominations, ha inventato
lo stile esotico di Dolly Lamour che, in The jungle princess (1936; La
figlia della giungla), lancia la moda dei sarong e dei tessuti
orientali; e, sempre lei, ha ideato lo
stile inquietante di Barbara Stanwyck in Double indemnity (1944; La fiamma
del peccato).
Con gli anni ‘50 la funzione del cinema, complice la diffusione
della televisione, cambia molto e con essa la concezione del divismo. I divi, con cui ci si identifica, continuano a rappresentare i
principali modelli di riferimento dell'eleganza, anche se meno idealizzati e
inaccessibili rispetto al passato. Emblematica, in tal senso, Marilyn Monroe che, con la sua bellezza
procace e il suo erotismo 'naturale', si impone come modello da imitare per
milioni di ragazze. Considerazioni analoghe valgono anche per il côté maschile con
attori del calibro di Marlon Brando e James Dean che diffondo prepotentemente l'abbigliamento informale,
caratterizzato da jeans, T-shirt e giubbotto, attraverso film come The wild
one (1953; Il selvaggio) o Rebel without a cause (1955; Gioventù
bruciata). Siamo nell’epoca dei divi dal corpo qualunque, che seducono non più perché straordinari ma
perché come noi. Non è tanto la
gente che somiglia loro, ma piuttosto il contrario. Da modelli i divi si sono
trasformati in riflessi.
Non a caso, infatti, i ruoli
di Marilyn Monroe sono spesso quelli della ragazza della porta accanto. Un caso
su tutti, il film di Billy Wilder: Seven year itch (1955; Quando la
moglie è in vacanza). Al costumista William
Travilla il merito d’aver scelto il vestito bianco che, sollevato da un
colpo di vento sopra le grate della sotterranea, è divenuto uno degli abiti più
noti della storia del cinema.
Accanto al fascino ingenuo
della Monroe, si afferma in questi anni quello più sensuale e inquietante di Elizabeth Taylor. La costumista
prediletta dall’attrice è Helen Rose
che le realizza le mises di Cat on a hot tin roof (1958; La
gatta sul tetto che scotta), tra le quali il famoso abito bianco dal
corpetto riccamente drappeggiato incrociato sul davanti, la cui copia, posta in
vendita nei grandi magazzini, realizza nel 1958 il record di incassi.
Contraltare del glamour
hollywoodiano, uno tipicamente europeo, concentrato di femminilità e seduzione:
Brigitte Bardot. A lei il plauso
d’aver lanciato mode come la coda di cavallo, le ballerine e il reggiseno a
balconcino a quadretti vichy.
Nel Belpaese, questa è l’epoca di Cinecittà e delle maggiorate
uscite dai concorsi di bellezza. Silvana Mangano, Sofia Loren e Gina
Lollobrigida diffondono l’immagine di una donna procace e prosperosa, con una
sostanziale differenza rispetto allo stile delle maggiorate d'oltreoceano: la
semplicità, complici gli abiti miseri da popolana presi in prestito dal
neorealismo.
Con l'affermarsi di Cinecittà e la nascita della nuova 'Hollywood sul Tevere',
la capitale diviene un importante punto di riferimento per il mondo dello
spettacolo internazionale, scenario privilegiato di quello stile di vita che
diventerà famoso con il nome di Dolce
Vita. Un clima di grande fervore per la città eterna, che stimola gli
atelier a ingrandirsi e a divenire sempre più sofisticati. È il momento di Schubert, Gattinoni e delle Sorelle Fontana. Il celebre atelier di queste ultime
diventerà addirittura lo scenario del film di Luciano Emmer, Le ragazze di
piazza di Spagna (1952). Un’abitudine, quella di utilizzare il mondo
della moda come ambientazione di set cinematografici, ripresa nel tempo: Roberta
(1935) di William A. Seiter, Artists and models abroad (1936) di
Mitchell Leisen, Mannequin (1938; La donna che voglio) di Frank Borzage,
e successivamente Funny face (1957; Cenerentola a Parigi) di
Stanley Donen, Designing woman (1957; La donna del destino) di
Vincente Minnelli, o ancora Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni.
In netto contrasto al modello della maggiorata, ma pur sempre
appartenente agli anni ’50, lo stile esile e raffinato di Audrey Hepburn,
consacrato, nel 1954, con il personaggio di Sabrina nell'omonimo film di Billy
Wilder. Un
film chiave, quest’ultimo, per i rapporti tra moda e cinema in quanto, per la
prima volta, con grande successo, la
figura dello stilista si affianca a quella del costumista. In Sabrina
questa presenza è così importante da divenire parte della narrazione: la
Hepburn da modesta figlia di un autista si trasforma, complice un soggiorno
parigino, in una sofisticata lady. La
metamorfosi è resa evidente dai raffinati abiti indossati nell'ultima parte del
film, rigorosamente firmati Hubert de Givenchy. Passa totalmente in secondo
piano il fatto che il guardaroba dell'attrice - dagli abitini scollati a
barchetta ai pantaloni stretti da torero - fino al fatidico soggiorno parigino
sia stato creato da Edith Head; quello che conta è l'inscindibile legame
venutosi a creare tra la Hepburn e Givenchy, un sodalizio rimasto inalterato
nel tempo sia sul set sia nella vita privata. Il grande sarto veste la diva in
film che hanno lasciato il segno nel campo della moda, come Funny face
(1957) o ancor più Breakfast at Tiffany's (1961; Colazione da Tiffany).
In quest'ultimo film l'attrice ha lanciato uno stile, tuttora reinterpretato
dalla moda, con la sua innata eleganza fatta di tubini neri e di grandi
occhiali da sole.
Gli ultimi decenni, oltre ad aver decretano il legame tra cinema
e moda,
basti pensare a Catherine Deneuve
che, dopo essere stata vestita da Yves
Saint Laurent sul set del film di Luis Buñuel Belle de jour (1967; Bella
di giorno), ha mantenuto con lo stilista un sodalizio fino alla sua
scomparsa.
In questi anni, l’immagine mitica del cinema è andata
affievolendosi, complice la spasmodica affermazione dei mass media e il loro
moltiplicarsi. I canoni di riferimento sono divenuti sempre più variegati, dando libero sfogo alla
creatività personale. Tuttavia, il cinema ha sempre avuto un ruolo di spicco
nel dettare le tendenze, dando vita a veri e propri fenomeni di costume. Nella
seconda metà degli anni ’60, il successo del film di Arthur Penn Bonnie and
Clyde (1967; Gangster story, con costumi di Theadora Van Runkle) influenza la moda in misura considerevole.
All'indomani dell'uscita del film, Faye
Dunaway - con il suo abbigliamento caratterizzato da basco, pullover
aderente e gonna longuette - porta alla ribalta lo stile anni ‘30. Una
tendenza al gusto del revival seguita qualche tempo più tardi e rivolta agli
anni ’20 con la trasposizione cinematografica del romanzo di Francis Scott
Fitzgerald The great Gatsby (1974; Il grande Gatsby). Sia gli
impeccabili completi disegnati dallo stilista Ralph Lauren per Robert Redford
nei panni di Gatsby, sia i vestiti indossati da Mia Farrow, hanno un enorme successo tanto da valere un Oscar per i
costumi a Theoni V. Aldridge. Da
ricordare, inoltre, il successo riscontrato nel 1977 dallo stile androgino di Annie
Hall (1977; Io e Annie, costumi di Ruth Morley; alcuni abiti di Ralph Lauren e Jean-Charles de
Castelbajac); il ritorno della sahariana dopo l'uscita sul grande schermo di Out
of Africa (1985; La mia Africa, costumi di Milena Canonero), o ancora il revival degli anni ‘40 favorito da Evita
(1996; costumi di Penny Rose) di
Alan Parker.
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