Norman Parkinson:
il fotografo e gentleman inglese che ha
cambiato il modo di vedere e raccontare la moda e le donne. Questo, in
sintesi, lo spirito emblematico dell’opera stilistica di Parkinson. A lui va il
plauso d’aver liberato la figura
femminile, permettendole di muoversi all’interno dello spazio fotografico.
Fino ad allora – si parla degli anni ’40 – era buona norma che le modelle
stessero ferme su uno sfondo statico. È lui il primo a svincolarsi da questo
dictat, preoccupandosi, in prima
istanza, di chi fossero realmente le donne immortalate e cosa andassero a
rappresentare e mettendo in secondo piano come avrebbero dovuto apparire secondo i
canoni dell’epoca. Pertanto, le sue fotografie e le protagoniste di esse,
divengono un segno dei tempi. Le sue non
sono immagini alla moda, bensì narrano di persone reali che si muovono al loro
interno: l’abito diventa così elemento di contorno e la fotografia assume un nuovo ruolo sociale e narrativo, raccontando di
un luogo, di un’epoca, di un’emozione. Un
cambiamento stilistico – le modelle che si muovono – parallelo a quello sociale
e culturale – l’emancipazione e la liberazione della donna nel XX secolo.
Parkinson inizia la carriera nel
1931, diventando apprendista presso i fotografi di corte Speaight and Sons Ltd. Tre
anni dopo si mette in proprio, aprendo un piccolo studio a Mayfair, nel
cuore di Londra, specializzandosi come fotografo
di debuttanti. Nel 1935 inizia a
scattare per Harper’s Bazaar e Queen, mentre nel 1940 per la versione inglese
di Vogue, usando uno stile tutto suo: scatti
realizzati con la luce naturale, che colgono nel vivo fuggevoli istanti della
vita delle donne.
Fotografia dopo fotografia, entra a far parte della viva e attraente
scena creativa londinese, familiarizzando con il movimento surrealista e con i
trucchi visivi, spesso umoristici, che lo caratterizzavano. È così che in
molti suoi scatti riecheggiano contraddizioni
tipiche del surrealismo e degli esponenti più celebri: da Spring hats in
Bath, che ricorda De Chirico all’immagine della modella in un bosco, con un
abito rosa Lancetti e il famoso divano ispirato alle labbra di Mae West
disegnato da Edward James con il benestare di Salvador Dalì.
Parkinson
amava lanciarsi a capofitto nelle sue imprese, concretizzando le sue idee senza
lasciare nulla per intentato.
Nei suoi lavori trapela la concezione
della fugacità del tempo, del fatto che in pochi istanti potesse svanire tutto
e, quindi, della relativa capacità di coglierlo nella sua autentica essenza,
riproponendolo in chiave illustrata, quasi ad immortalarlo nella sua fulminea
eternità.
Nel 1964 decide di trasferirsi a
Tobago, dedicandosi all’allevamento e alla produzione di una varietà di
salsicce chiamate “Parkinson’s bangers” che spedisce a Londra. Si tratta, però,
di un soggiorno breve, dal momento che Diana
Vreeland in persona, divenuta l’anno prima fashion editor per l’edizione
statunitense di Vogue, lo chiama a
collaborare per la rivista. Parkinson riprende a pieno regime, divenendo
negli anni ’80 una vera e propria icona dell’arte fotografica: i suoi scatti, ancora una volta,
definiscono un’epoca. Animato dal suo stile inconfondibile, continua a fare il
contrario di quello che vuole la moda, ossia controllare l’identità della
persona. Parkinson la libera: di
muoversi, di esprimersi, di lasciarsi contagiare e, a sua volta, di contagiare
con irrefrenabile entusiasmo e, al tempo stesso, irrinunciabile concretezza.
Come per l’arte di Martin Munkacsi, suo punto di riferimento sul finire degli
anni ’30, anche per la sua vale la definizione di realismo in movimento: nulla
è statico e tutto avviene in scenari vicinissimi alla realtà quotidiana di ogni
essere umano. Nel corso della sua carriera stilistica, passa da ambientazioni pastorali, decisamente britanniche, a contesti
urbani (complice il trasferimento a New York), fatti di grattacieli e macchine
sfreccianti.
Nel 1981 diventa fotografo ufficiale
della corte inglese e lo stesso anno la National Portrait Gallery di Londra
espone mezzo secolo del suo lavoro nella moda.
Gentile ed eccentrico quel tanto che
basta per creare un personaggio in linea con la sua vocazione interiore,
Parkinson era un perfetto gentiluomo inglese: garbato ma determinato, ironico e
divertente, ma, al tempo stesso, convinto della sua arte al punto da desiderare
di sperimentare ogni dettaglio per una resa formale d’avanguardia.
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