martedì 9 settembre 2014

ENTERTAINMENT_Fashion film









Alla vigilia della prima edizione di un festival italiano tutto dedicato ai fashion movie (Fashion Film Festival Milano, 14-15 settembre 2014), la mente corre ai corto e lungometraggi che in questi anni già hanno riproposto al grande pubblico i retroscena di un mondo affascinante e sfavillante quanto è quello della moda. Occhi discreti che, per certi versi, hanno svelato aneddoti e curiosità, portando sul grande schermo il dietro le quinte di un universo che prima di essere immagine e tendenza è storia, cultura, arte e business. Dati alla mano, per l’Italia il settore moda vale 34 miliardi di euro, con un totale di 236mila imprese dedicate e 821mila addetti. Centro della creatività, ça va sans dire, Milano con 1.600 realtà attive (fonte Camera di Commercio di Milano su dati Infocamere 2013 e 2012).
Statistiche a parte, numerosi sono gli esempi di fashion movie, vuoi che narrino la storia di maisons o stilisti famosi, vuoi che ripropongano per immagini i segreti legati ai personaggi che hanno segnato pagine indelebili della moda

Valentino – The last emperor
Documentario statunitense del 2008, diretto da Matt Tyrnauer, corrispondente speciale della rivista di moda Vanity Fair. La pellicola racconta gli ultimi due anni di attività dello stilista italiano Valentino Garavani. Per il film sono state girate oltre 250 ore di filmati, fra il giugno 2005 e il luglio 2007. Presentato alla 65esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film è stato proiettato nei cinema statunitensi nel marzo 2009 e in quelli italiani il 20 novembre 2009. Numerosi i personaggi intervistati o mostrati, legati al mondo della moda e dello spettacolo, fra i quali si possono citare Tom Ford, Karl Lagerfeld, Matteo Marzotto, Joan Collins, Meryl Streep, Gwyneth Paltrow, Claudia Schiffer, André Leon Talley, Donatella Versace, Giorgio Armani, Valerio Festi, Anne Hathaway, Elizabeth Hurley, Diane Von Furstenberg, Alek Wek, Anna Wintour.
Il risultato? Un complesso ritratto di quello che, a ragion veduta, è stato davvero un “imperatore” dello stile. A Tyrnauer il plauso di offrire allo spettatore l’immagine di un grande creatore di moda, mostrando il processo di realizzazione dei suoi capolavori di stoffa nonché cogliendone le intuizioni geniali così come gli improvvisi mutamenti d’umore.
Ciò che più colpisce, però, è la storia che emerge con forza di una relazione durata 50 anni: quella tra Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti. Il rapporto tra i due è di stima, di affetto e di collaborazione piena. Il creativo Valentino si vede sgombrare la strada delle incombenze quotidiane dal manager Giancarlo. Assistiamo ai loro scontri, ma anche alla commozione che coglie il “freddo” stilista quando ringrazia pubblicamente chi lo ha sostenuto e accompagnato così a lungo nella vita. Non deve essere stato semplice né per il protagonista né per chi lo seguiva riuscire a scalfire la cortina di riservatezza che è dipinta sul volto dello stilista. Ma l’obiettivo è stato raggiunto. Con classe, come lo stile Valentino esige.

Yves Saint Laurent L’amour fou
Il film, a firma del regista-fotografo Pierre Thoretton, tramite le parole di Pierre Bergé, compagno di vita e di lavoro di Yves Saint Laurent, fa rivivere l'arte del maestro dell'haute couture che sapeva caricare le sue creazioni di una vitalità dirompente, anche se, nella vita privata, una velata malinconia scandiva le ore trascorse nelle proprie dimore da sogno. Un viaggio dai toni lunari e umbratili, in cui si svela una personalità complessa e fragile, che segnerà il contemporaneo come un grande pittore o architetto. Ma anche una riflessione sulla fama, il lusso, la solitudine. Dagli inizi al fianco del maestro Christian Dior all’amore per il teatro e la letteratura (Marcel Proust in testa), passando per il talento visionario, la creatività multiforme di uno stile raffinato e innovatore – è stato il primo a far indossare i pantaloni alle donne - e le collezioni ricche di suggestioni provenienti dall’arte (Mondrian) e dai luoghi di tutto il mondo (Africa, Spagna, India, Marocco, Russia), fino ad arrivare all’amicizia con i più grandi artisti del suo tempo (un nome su tutti, Andy Warhol).
“Ho avuto la fortuna di diventare assistente di Christian Dior a 18 anni, di succedergli a 21 anni e di conoscere il successo con la mia prima collezione nel 1958, 44 anni fa tra pochi giorni. Da allora ho vissuto per il mio mestiere e grazie al mio mestiere e sono fiero che le donne di tutto il mondo portino tailleur-pantalone, smoking, caban e trench. Mi dico che ho creato il guardaroba della donna contemporanea, che ho partecipato alla trasformazione della mia epoca. Mi si perdonerà di farmene un vanto, perché ho creduto da sempre che la moda non servisse solo a rendere più belle le donne, ma anche a rassicurarle, a dar loro fiducia, a permettere loro di essere consapevoli. Ogni uomo per vivere ha bisogno di fantasmi estetici. Io li ho inseguiti, cercati, braccati. Ho sperimentato molte forme di angoscia, molte forme di inferno. Ho conosciuto la paura e la terribile solitudine, la falsa amicizia dei tranquillanti e degli stupefacenti, la prigione della depressione e quella delle case di cura. Da tutto questo un giorno sono uscito, stordito, ma nuovamente in me. Marcel Proust mi aveva insegnato che la magnifica e lamentosa famiglia dei nevrotici è il sale della terra. Non ho scelto questa fatale discendenza, ma è grazie a lei che mi sono innalzato nel cielo della creazione, che ho frequentato i “ladri di fuoco” di cui parla Rimbaud, che ho trovato me stesso, che ho compreso che l’incontro più importante della vita è quello con se stessi. Nonostante questo, oggi ho deciso di dire addio a questo mestiere che ho tanto amato”. Con questo discorso intenso e pieno di amore per la moda, Yves Saint Laurent dice addio alle luci della passerella chiudendo definitivamente un’epoca. Da qui, dal famoso addio, Pierre Thoretton parte per raccontare il mondo Yves Saint Laurent: un mondo costellato di successi ma anche di momenti di grande malinconia. Il regista filma Pierre Bergé mentre prepara l’asta in cui saranno vendute le Opere d’arte della loro collezione privata: quadri, sculture, mobili, oggetti della memoria che troveranno una nuova dimora perché, come afferma lo stesso Bergé, “I becchini dell’arte verranno e porteranno via tutto. È una parte del mio cuore, una parte della mia vita e consegneranno tutto questo al fuoco delle offerte dell’asta. Ma, sapete, perdere qualcuno con cui si è vissuto, con alti e bassi, è un’altra cosa che vedere i propri oggetto d’arte andarsene.”
Yves Saint Laurent e Pierre Bergé si incontrano per la prima volta nel 1957, il giorno del funerale di Christian Dior: quando Yves succede a Dior ha solo venti anni, ma, nonostante ciò, la sua pima collezione si rivela un enorme successo, mostrando al grande pubblico una personalità destinata a diventare un grande nome della moda. A chi gli domanda cosa si prova ad essere il nuovo Dior, un timido Yves risponde: “Sono soprattutto molto commosso. Sono anche molto felice, ma soprattutto commosso al pensiero di Monsieur Dior.” Tre o quattro giorni dopo, Marie-Louise Bousquet (corrispondente dell’Harper’s Bazaar), decide di organizzare una cena in Place Blanche: in quell’occasione Yves e Pierre si conoscono e qualche mese dopo decidono di vivere insieme. Saint Laurent continua il suo lavoro come direttore creativo di Dior finché non viene convocato per fare il servizio militare (era il periodo della Guerra in Algeria) e sceglie di farsi riformare, decisione che porterà alla rottura con la Maison. Da lì nasce la decisione di fondare una propria casa di moda, un passo che richiede tempo e grandi sforzi. Pierre trova un investitore americano e il 29 gennaio del 1962 - in una stradina anonima del 6° arrondissement, lontano dal triangolo d’oro di Avenue Montaigne – viene lanciata la prima collezione di Yves Saint Laurent. È un immenso successo: “Certo, non pensavo che sarebbe stato tutto facile. Ma mi dicevo che tutto sarebbe stato possibile. E lo è stato…”, ricorda Bergé. Con la fama arriva anche l’infelicità e Yves cerca il conforto nella droga e nell’alcol, perché quell’incredibile pressione non è facile da sostenere. La sua vita è sempre più votata agli eccessi e Pierre, stanco di tutto questo, decide di lasciarlo: “Sono andato a vivere all’Hotel Lutetia. Non sono riuscito ad andare più lontano della fine della sua strada. Per me era molto difficile lasciarlo.” L’allontanamento di Saint Laurent dalla vita pubblica va di pari passo con il suo malessere, che non fa altro che crescere e peggiorare. “La gloria è lo splendido lutto della felicità. E Yves ne è la perfetta dimostrazione. La sua gloria gli ha portato solo una sofferenza dopo l’altra. Posso dire di averlo visto felice solo due volte all’anno, al termine della sua collezione, quando usciva tra l’acclamazione di una sala che si alzava in piedi per applaudirlo.”
Dopo una lunga malattia lo stilista si spegne nella sua casa di Parigi la notte del 1 giugno 2008, all’età di 72 anni. Le sue ceneri sono conservate nel Giardino Majorelle di Marrakech in Marocco, villa appartenuta al celebre artista francese e in seguito acquistata e ristrutturata da Saint Laurent e Bergé. Yves Saint Laurent è stato uno dei più grandi talenti della moda, un genio creativo che ha compreso la sua epoca meglio di chiunque altro e che, tuttavia, non l’ha mai amata. “Cosa dobbiamo dedurne? Probabilmente gli artisti, i veri artisti, dopotutto, vivono la propria vita parallelamente alla loro epoca, ma allo stesso tempo la trasformano.”


Yves Saint Laurent
Parigi, 1957. Yves Saint Laurent ha 21 anni e viene chiamato a prendere il posto del defunto Christian Dior nella cui maison ha già avuto modo di dar prova delle proprie qualità. Lo attende la prima collezione totalmente affidata alla sua creatività. Il successo ottenuto lo proietta ai più alti livelli della moda parigina imponendogli al contempo una continua pressione. Il ricovero per una sindrome maniaco-depressiva, in occasione della sua chiamata alle armi per la guerra in Algeria, fa sì che venga licenziato. Grazie al sostegno di Pierre Bergé, che ne diverrà il compagno e il factotum, lo stilista apre una propria casa di haute couture e YSL diverrà un marchio simbolo di eleganza e innovazione.

Jalil Lespert si inserisce con questo film nell'ambito del film biografico stando attento a non eccedere nella beatificazione del protagonista ed evitando anche di cadere nel gossip per immagini. Il film non ci propone solo il progredire della creatività di un artista in continua ed obbligata evoluzione (a un certo punto gli verrà fatto rilevare che è felice solo due volte l'anno: in primavera e in autunno quando presenta le nuove collezioni), bensì si spinge oltre: lo contestualizza, ad esempio, nella lacerante situazione di chi ha lasciato la natia Algeria (da cui anche il regista proviene) e sente il peso di dover rispondere ad interrogativi socio-politici a cui si vorrebbe che prestasse attenzione. La sua vita invece sta in quelle matite che muove con la rapidità di un pittore e da cui nascono abiti che sanno valorizzare le donne rimanendo al passo coi tempi e spesso anticipandoli.
Come Valentino Garavani con Giancarlo Gemmetti così per Yves è determinante l'incontro con Pierre Bergé. È il compagno a cui può appoggiarsi quando la sua forza creativa si muta in fragilità emotiva, è l'organizzatore e il manager. È colui che sa dare un valore commerciale alle sue creazioni, mentre Yves acquista una preziosa e antica statua di Buddha senza saperne neppure il prezzo. È a lui (interpretato da un partecipe Guillaume Gallienne) che Lespert affida la narrazione ed è il vero Bergé che ha consentito di esplorare il lato nascosto alle cronache di una relazione durata tutta una vita. Un rapporto in cui non sono mancati i tradimenti e che, per un periodo non breve, ha finito con il ruotare intorno a una donna. La modella Victoire diviene per entrambi un oggetto del desiderio e della gelosia che non li spinge mai a rinnegare od occultare la loro omosessualità ma li mette a confronto con quel mondo femminile per il quale entrambi ogni giorno elaborano e promuovono quegli altri oggetti del desiderio che hanno il nome di abiti di alta moda.


The september issue
Documentario statunitense incentrato sul mondo della moda e, in particolare, su Anna Wintour, la celebre direttrice di Vogue US, durante gli incontri di lavoro e le settimane della moda, raccontando i nove mesi di preparazione del numero di settembre della rivista, da sempre considerato il più importante in quanto caratterizzante le scelte editoriali di tutto l’anno. La pellicola è stata presentata in anteprima al Sundance Film Festival 2009, ottenendo il premio come Miglior Documentario. Ha inoltre partecipato a numerosi eventi fra cui il Full Frame Documentary Film Festival (2009), il Silverdocs Afi/Discovery Channel Documentary Festival (2009) e l’Edinburgh International Film Festival (2009).


Fashion sulla 5th Avenue
Vi sono cose e personaggi che caratterizzano un’epoca, un genere, un ambiente. Bergdorf Goodman è una di queste, al punto di assurgere il ruolo di icona. Lo store della Quinta Strada, fondato a fine '800 da Herman Bergdorf e poi acquisito da Edwin Goodman che lo ha passato al figlio Andrew, è l'emblema del lusso nonché eco della storia degli Stati Uniti. Unico nel suo genere, è il luogo dove ogni stilista sogna di vedere esposti i suoi abiti. 
Teatro di sequenze cinematografiche famose (una per tutte la scena in cui Dudley Moore incontra Liza Minnelli in Arturo), citato in innumerevoli dialoghi, il tempio della moda è l'oggetto di questo documentario che intervista i grandi nomi del fashion, da Vera Wang a Oscar de la Renta, da Dolce&Gabbana a Narciso Rodriguez, ma anche gli stilisti che non hanno ancora avuto accesso all'edificio e vivono nell'attesa. Una sorta di visita guidata nel museo del lusso e dell'esclusività, dove le collezioni sono temporanee ma la fascinazione è permanente. Come ogni monumento che si rispetti, anche questa cattedrale del fashion ha le sue memorie sedimentate e le sue storie divenute leggendarie, come i cappellini di Jackie O', la volta in cui una barbona si presentò con una borsa piena zeppa di contanti o quella in cui Yoko Ono chiamò all'orario di chiusura una vigilia di Natale e, insieme a John Lennon, comprò ottanta pellicce, una per ogni membro del loro staff, spendendo qualcosa come cinquecentomila dollari. Ma c'è anche una storia tutta al presente, di personal shopper, di guru dello stile, di vetrine che hanno fatto sognare e continuano a farlo. E, tra tutti, è sicuramente il capitolo sulle vetrine il più affascinante e rappresentativo: curate come se si trattasse di vere e proprie installazioni d'arte contemporanea, rigorosamente differenti l'una dall'altra, ma legate da un tema che detta la religione del momento, le vetrine di Bergdorf sono un'esperienza drammatica nel senso teatrale del termine, un tripudio di oggetti che solleticano la cupidigia, oltre che un investimento a dir poco astronomico (ma evidentemente sempre ripagato). L'allestimento nottetempo di questi sontuosi fermo-immagine cinematografici, è un film nel film: dalla ricerca dei pezzi unici alla commissione di ogni tipo di manufatto ad artisti e artigiani, fino al trasporto e alla composizione "dell'inquadratura", la creazione delle vetrine di Bergdorf Goodman è il dispiegamento materiale dell'ideale del sogno americano del tutto-è-possibile, il trionfo dell'immagine, la ragione dell'esistenza di un luogo del genere, così inarrivabile - per lo meno nella sua totalità - da costituire un eterno oggetto del desiderio.
Il documentario esplora la storia, i meccanismi profondi e i segreti di questo magazzino, partendo dalla nascita come modesta bottega sartoriale per signore per arrivare a divenire il riflesso della cultura contemporanea. Per la prima volta il grande pubblico ha l’occasione di gettare lo sguardo dentro questo magico universo, carpendone i segreti: le leggende, le feste, le vetrine, le donne, i compratori e i clienti prendono nuovamente vita in questo ritratto dove creatività e commercio entrano in simbiosi.


Diana Vreeland - L’imperatrice della moda
Diana Vreeland: giornalista ma, prima ancora, icona di stile del ventesimo secolo.  A lei, imperatrice della moda, il plauso d’aver dettato le regole di gusto ed eleganza a un’intera generazione di celebrità. “L'occhio deve viaggiare”. Fu questo il mantra che guidò il lavoro della Vreeland come editor della rivista femminile Harper's Bazaar prima (a partire dagli anni Trenta) e come redattrice capo di Vogue America poi (dal 1962 al 1972). Un motto che la spinse a concepire i servizi di moda come reportage realizzati in giro per il mondo e strutturati come storie che suscitavano una visione romantica della moda. Il tutto all'insegna di un'originalità fuori dal comune.
Il documentario diretto da Lisa Immordino Vreeland, nipote della giornalista scomparsa nel 1989, racconta la vita e soprattutto la carriera di questo genio creativo e anticonformista, intollerante alla noia e alla banalità. Con l'ausilio di filmati di repertorio, scatti patinati, fotografie d'autore e interviste a familiari, collaboratori e amici della Vreeland, la regista tratteggia il ritratto scanzonato, leggero e colorato di una donna divenuta simbolo di bellezza pur non essendo affatto bella (la madre la trattava come il brutto anatroccolo di famiglia). Una donna che si propose di emergere in un mondo dominato dagli uomini, imponendo la figura della ragazza ambiziosa e stravagante e anticipando le tendenze, incurante degli scandali (come quando sdoganò il bikini e i blue jeans). Numerose le dive lanciate dalla caporedattrice dalle pagine di Vogue: da Lauren Bacall a Twiggy, da Brigitte Bardot a Cher, da Lauren Hutton ad Angelica Huston a Marisa Berenson. Alcune raccontano la loro esperienza nel documentario, al pari dei fotografi di successo (su tutti Irving Penn) che hanno messo il loro talento al servizio dell'estro di Diana Vreeland e degli stilisti che la stessa ha contribuito a consacrare nell’olimpo dei divini (come Missoni, Valentino, Calvin Klein e Oscar de la Renta). Ma sono soprattutto gli estratti delle interviste alla stessa Diana Vreeland che compongono il quadro di una donna irriverente e dall'energia vulcanica, che adorava la mondanità e i fermenti culturali della Parigi della Belle Epoque, in cui nacque, e che trovò nel fervore libertario, giovanilistico e anticonformista degli anni Sessanta le più fertili condizioni di ispirazione. 
”Non conta tanto il vestito che indossi, quanto la vita che conduci mentre lo indossi” era solita affermare: un principio identitario che caratterizzò il suo lavoro fino alla fine. Dopo l'avventura di Vogue, infatti, si impegnò come consulente tecnico dell'Istituto del costume del Metropolitan Museum of Art, che osò trasformare in una sorta di night club, con sommo scandalo dei benpensanti e straordinario successo di pubblico e celebrità. 
Una dedizione alla carriera, quella di Diana Vreeland, che la portò a trascurare la vita familiare, come emerge dalle interviste ai figli, che la dipingono come “una donna priva di emozioni, che non si interessava alle cose convenzionali da madre ordinaria”. Sono queste le uniche ombre in un ritratto che predilige i chiari agli scuri, come se la regista non volesse macchiare l'agiografia della Vreeland, rispettando la volontà della stessa giornalista, che preferiva parlare della sua straordinaria carriera piuttosto che della vita privata.


Obiettivo Annie Leibovitz
Interessante documentario che racconta il lavoro - e in parte anche la vita - di una delle più importanti fotografe al mondo: Annie Leibovitz. Dall'adolescenza nomade per seguire il padre, militare di carriera, agli anni di "Rolling Stones", dalla svolta glamour alla scoperta  dell'impegno accanto a Susan Sontag fino al set di Maria Antonietta, impressiona la quantità di luoghi e persone, celebri e non, che la fotografa americana ha ritratto nel corso del tempo. Nel film, diretto dalla sorella Barbara, Annie Leibovitz si racconta, passando dagli anni ’60 passati a San Francisco ad insegnare prima arte e poi a fotografare influenzata da grandissimi maestri come Robert Frank ed Henry Cartier-Bresson fino al suo ingresso al giornale Rolling Stone, dai primi successi alle immagini come quelle scattate a Bette Midler tra migliaia di rose rosse o a John Lennon e a Yoko Ono, fotografati da lei insieme cinque ore prima l’omicidio del musicista.
A corollario il libello Dietro una lente: vita e fotografie di Annie Leibovitz di Luca Scarlini, critico e scrittore, che racconta l'itinerario artistico  della Leibovitz, provando anche a spiegare le ragioni e i segreti di un successo planetario.

Coco avant Chanel. L’amore prima del mito
Film biografico del 2009 diretto da Anne Fontaine, interpretato da Audrey Tautou e nominato agli European Film Awards, BAFTA Awards, Premi César, Premi Magritte e agli Academy Awards. La pellicola racconta la storia della stilista francese Gabrielle Coco Chanel, dalla povertà e dai primi lavori come cabarettista fino alla nascita della Maison di alta moda, quintessenza di eleganza e raffinatezza. Parallelamente, viene raccontata la sua più grande storia d’amore con Boy Chapel. 

Gabrielle è una giovane donna abbandonata dal padre e cresciuta in un orfanotrofio, dove ha imparato l'arte del cucire. Di giorno è impiegata come sartina in un negozio di stoffe troppo lontano da Parigi e di notte canta canzonette stonate per soldati ebbri di donne e di vino. L'incontro con Étienne Balsan, nobile e villano col vizio dei cavalli, introduce Coco in un mondo di pizzi, ozi e carezze. Insofferente alla vita edonistica e determinata a conquistare il suo posto nel mondo, troverà ispirazione nell'amore per Boy Capel, un gentiluomo inglese che corrisponde il suo sentimento, intuisce la sua grazia naturale e asseconda le sue inclinazioni. Le sue mani, guidate dal cuore, confezioneranno cappelli per pensare e abiti per emancipare (rigorosamente in jersey). Coco avant Chanel punta a svelare le dinamiche complesse che presiedono alla relazione fra l'universo nobiliare, quello borghese e quello proletario nella Francia del Primo Novecento. I tre mondi trovano una perfetta ed esatta dislocazione nei teatri e nelle tribune degli ippodromi, lungo i corridoi e le scale della villa Balsan in cui si svolge la storia e la vita di Gabrielle. Dialoghi e azioni contribuiscono a definire un confine esistente fra i piani: il brulicare frenetico di chi sta sotto a servire, la noia abulica che divora le relazioni degli inquilini del piano nobile servito. Tutto nel film funziona per nette opposizioni economiche, somatiche, cromatiche (gli abiti minimalisti e desaturati della protagonista contro quelli appariscenti e vivaci di Émilienne), a sottolineare e forzare la differenza tra l'orfana Coco e i figli "legittimi" della società altolocata. Ad abbattere l'agonia di una sovranità arcaica che gioca ancora a nascondino, sospesa e "in maschera" alle soglie della modernità, provvede una donna dotata di intelligenza e cultura, che punta sul fashion design fino ad innalzarlo a strumento di potere e di emancipazione, colpendo con eleganza e sobrietà l'ordine sociopolitico maschile. 
Coco Chanel rappresenta una sorta di reazione creativa e attiva a una vita che poteva essere triste e ingrata, alle ipocrisie e alle ritualità della casta nobile, ai momenti codificati dell'etichetta e alle strutture del potere maschile. Dentro i suoi abiti i due livelli della società abbandonano la loro impermeabilità, lasciando scivolare sulla rivoluzionaria stoffa a maglia rasata elementi di continuità, come il contatto sessuale e quello sentimentale. Coco "spogliò" la donna dai condizionamenti culturali, che la immobilizzavano in una recita frivola, invitandola a dire (anche) attraverso ciò che indossa. I vestiti lasciano il posto ad altri vestiti ma il tailleur Chanel (ri)fà la donna.

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