Alla
vigilia della prima edizione di un festival italiano tutto dedicato ai fashion
movie (Fashion Film Festival Milano, 14-15 settembre 2014), la mente corre ai corto e lungometraggi che in questi anni
già hanno riproposto al grande pubblico i retroscena di un mondo affascinante e
sfavillante quanto è quello della moda. Occhi discreti che, per certi
versi, hanno svelato aneddoti e curiosità, portando sul grande schermo il
dietro le quinte di un universo che prima di essere immagine e tendenza è
storia, cultura, arte e business. Dati alla mano, per l’Italia il settore moda
vale 34 miliardi di euro, con un totale di 236mila imprese dedicate e 821mila
addetti. Centro della creatività, ça va
sans dire, Milano con 1.600 realtà attive (fonte Camera di Commercio di
Milano su dati Infocamere 2013 e 2012).
Statistiche
a parte, numerosi sono gli esempi di fashion movie, vuoi che narrino la storia
di maisons o stilisti famosi, vuoi che ripropongano per immagini i segreti
legati ai personaggi che hanno segnato pagine indelebili della moda
Valentino
– The last emperor
Documentario
statunitense del 2008, diretto da Matt Tyrnauer, corrispondente speciale della
rivista di moda Vanity Fair. La pellicola racconta gli
ultimi due anni di attività dello stilista italiano Valentino Garavani. Per il film sono state girate oltre 250 ore di filmati, fra il
giugno 2005 e il luglio 2007. Presentato
alla 65esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il
film è stato proiettato nei cinema statunitensi nel marzo 2009 e in quelli
italiani il 20 novembre 2009. Numerosi i
personaggi intervistati o mostrati, legati al mondo della moda e dello
spettacolo, fra i quali si possono citare Tom Ford, Karl Lagerfeld, Matteo
Marzotto, Joan Collins, Meryl Streep, Gwyneth Paltrow, Claudia Schiffer, André
Leon Talley, Donatella Versace, Giorgio Armani, Valerio Festi, Anne Hathaway,
Elizabeth Hurley, Diane Von Furstenberg, Alek Wek, Anna Wintour.
Il risultato? Un complesso ritratto di quello che, a ragion
veduta, è stato davvero un “imperatore” dello stile. A Tyrnauer il plauso di offrire
allo spettatore l’immagine di un grande creatore di moda, mostrando il processo
di realizzazione dei suoi capolavori di stoffa nonché cogliendone le intuizioni
geniali così come gli improvvisi mutamenti d’umore.
Ciò che più colpisce, però, è la storia che emerge con forza di una
relazione durata 50 anni: quella tra Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti.
Il rapporto tra i due è di stima, di affetto e di collaborazione piena. Il
creativo Valentino si vede sgombrare la strada delle incombenze quotidiane dal
manager Giancarlo. Assistiamo ai loro scontri, ma anche alla commozione che
coglie il “freddo” stilista quando
ringrazia pubblicamente chi lo ha sostenuto e accompagnato così a lungo nella
vita. Non deve essere stato semplice né per il protagonista né per chi lo
seguiva riuscire a scalfire la cortina di riservatezza che è dipinta sul volto
dello stilista. Ma l’obiettivo è stato raggiunto. Con classe, come lo stile
Valentino esige.
Yves
Saint Laurent L’amour fou
Il film, a firma del regista-fotografo Pierre Thoretton, tramite
le parole di Pierre Bergé, compagno di vita e di lavoro di Yves Saint Laurent,
fa rivivere l'arte del maestro dell'haute couture che sapeva caricare le sue
creazioni di una vitalità dirompente, anche se, nella vita privata, una velata
malinconia scandiva le ore trascorse nelle proprie dimore da sogno. Un viaggio dai toni lunari e
umbratili, in cui si svela una personalità complessa e fragile, che segnerà il
contemporaneo come un grande pittore o architetto. Ma anche una riflessione
sulla fama, il lusso, la solitudine. Dagli inizi al fianco del maestro Christian Dior all’amore per il teatro e la
letteratura (Marcel Proust in testa),
passando per il talento visionario, la creatività multiforme di uno stile
raffinato e innovatore – è stato il primo a far indossare i pantaloni alle
donne - e le collezioni ricche di suggestioni provenienti dall’arte (Mondrian)
e dai luoghi di tutto il mondo (Africa, Spagna, India, Marocco, Russia), fino
ad arrivare all’amicizia con i più grandi artisti del suo tempo (un nome su
tutti, Andy Warhol).
“Ho avuto la fortuna di
diventare assistente di Christian Dior a 18 anni, di succedergli a 21 anni e di
conoscere il successo con la mia prima collezione nel 1958, 44 anni fa tra
pochi giorni. Da allora ho vissuto per il mio mestiere e grazie al mio mestiere
e sono fiero che le donne di tutto il mondo portino tailleur-pantalone,
smoking, caban e trench. Mi dico che ho creato il guardaroba della donna contemporanea,
che ho partecipato alla trasformazione della mia epoca. Mi si perdonerà di
farmene un vanto, perché ho creduto da sempre che la moda non servisse solo a
rendere più belle le donne, ma anche a rassicurarle, a dar loro fiducia, a
permettere loro di essere consapevoli. Ogni uomo per vivere ha bisogno di
fantasmi estetici. Io li ho inseguiti, cercati, braccati. Ho sperimentato molte
forme di angoscia, molte forme di inferno. Ho conosciuto la paura e la
terribile solitudine, la falsa amicizia dei tranquillanti e degli stupefacenti,
la prigione della depressione e quella delle case di cura. Da tutto questo un
giorno sono uscito, stordito, ma nuovamente in me. Marcel Proust mi aveva
insegnato che la magnifica e lamentosa famiglia dei nevrotici è il sale della
terra. Non ho scelto questa fatale discendenza, ma è grazie a lei che mi sono
innalzato nel cielo della creazione, che ho frequentato i “ladri di fuoco” di
cui parla Rimbaud, che ho trovato me stesso, che ho compreso che l’incontro più
importante della vita è quello con se stessi. Nonostante questo, oggi ho deciso
di dire addio a questo mestiere che ho tanto amato”. Con questo discorso intenso e
pieno di amore per la moda, Yves Saint Laurent dice addio alle luci
della passerella chiudendo definitivamente un’epoca. Da qui, dal famoso addio,
Pierre Thoretton parte per raccontare il mondo Yves Saint Laurent: un mondo
costellato di successi ma anche di momenti di grande malinconia. Il regista
filma Pierre Bergé mentre prepara l’asta in cui saranno vendute le Opere d’arte
della loro collezione privata: quadri, sculture, mobili, oggetti della memoria
che troveranno una nuova dimora perché, come afferma lo stesso Bergé, “I becchini dell’arte
verranno e porteranno via tutto. È una parte del mio cuore, una parte della mia
vita e consegneranno tutto questo al fuoco delle offerte dell’asta. Ma, sapete,
perdere qualcuno con cui si è vissuto, con alti e bassi, è un’altra cosa che
vedere i propri oggetto d’arte andarsene.”
Yves Saint Laurent e Pierre
Bergé si
incontrano per la prima volta nel 1957, il giorno del funerale di Christian
Dior: quando Yves succede a Dior ha solo venti anni, ma, nonostante ciò, la
sua pima collezione si rivela un enorme successo, mostrando al grande pubblico
una personalità destinata a diventare un grande nome della moda. A chi gli
domanda cosa si prova ad essere il nuovo Dior, un timido Yves risponde: “Sono
soprattutto molto commosso. Sono anche molto felice, ma soprattutto commosso al
pensiero di Monsieur Dior.” Tre o quattro giorni dopo, Marie-Louise
Bousquet (corrispondente dell’Harper’s Bazaar), decide di
organizzare una cena in Place Blanche: in quell’occasione Yves e Pierre
si conoscono e qualche mese dopo decidono di vivere insieme. Saint Laurent
continua il suo lavoro come direttore creativo di Dior finché non viene
convocato per fare il servizio militare (era il periodo della Guerra in
Algeria) e sceglie di farsi riformare, decisione che porterà alla rottura con
la Maison. Da lì nasce la decisione di fondare una propria casa di moda, un
passo che richiede tempo e grandi sforzi. Pierre trova un investitore americano
e il 29 gennaio del 1962 - in una stradina anonima del 6° arrondissement, lontano
dal triangolo d’oro di Avenue Montaigne – viene lanciata la prima
collezione di Yves Saint Laurent. È un immenso successo: “Certo, non
pensavo che sarebbe stato tutto facile. Ma mi dicevo che tutto sarebbe stato
possibile. E lo è stato…”, ricorda Bergé. Con la fama arriva anche
l’infelicità e Yves cerca il conforto nella droga e nell’alcol, perché
quell’incredibile pressione non è facile da sostenere. La sua vita è sempre più
votata agli eccessi e Pierre, stanco di tutto questo, decide di lasciarlo: “Sono
andato a vivere all’Hotel Lutetia. Non sono riuscito ad andare più lontano
della fine della sua strada. Per me era molto difficile lasciarlo.” L’allontanamento
di Saint Laurent dalla vita pubblica va di pari passo con il suo malessere, che
non fa altro che crescere e peggiorare. “La gloria è lo splendido lutto della
felicità. E Yves ne è la perfetta dimostrazione. La sua gloria gli ha
portato solo una sofferenza dopo l’altra. Posso dire di averlo visto felice
solo due volte all’anno, al termine della sua collezione, quando usciva tra
l’acclamazione di una sala che si alzava in piedi per applaudirlo.”
Dopo una lunga malattia lo
stilista si spegne nella sua casa di Parigi la notte del 1 giugno 2008,
all’età di 72 anni. Le sue ceneri sono conservate nel Giardino Majorelle
di Marrakech in Marocco, villa appartenuta al celebre artista francese e in seguito
acquistata e ristrutturata da Saint Laurent e Bergé. Yves Saint Laurent
è stato uno dei più grandi talenti della moda, un genio creativo che ha
compreso la sua epoca meglio di chiunque altro e che, tuttavia, non l’ha mai
amata. “Cosa dobbiamo dedurne? Probabilmente gli artisti, i veri artisti,
dopotutto, vivono la propria vita parallelamente alla loro epoca, ma allo
stesso tempo la trasformano.”
Yves
Saint Laurent
Parigi, 1957. Yves Saint Laurent ha 21 anni e viene chiamato a
prendere il posto del defunto Christian Dior nella cui maison ha già avuto modo
di dar prova delle proprie qualità. Lo attende la prima collezione totalmente affidata alla
sua creatività. Il successo ottenuto lo proietta ai più alti livelli della moda
parigina imponendogli al contempo una continua pressione. Il ricovero per una
sindrome maniaco-depressiva, in occasione della sua chiamata alle armi per la
guerra in Algeria, fa sì che venga licenziato. Grazie al sostegno di Pierre Bergé, che ne diverrà il
compagno e il factotum, lo stilista apre una propria casa di haute couture e
YSL diverrà un marchio simbolo di eleganza e innovazione.
Jalil Lespert si inserisce con
questo film nell'ambito del film biografico stando attento a non eccedere nella
beatificazione del protagonista ed evitando anche di cadere nel gossip per
immagini. Il film non ci propone solo il
progredire della creatività di un artista in continua ed obbligata evoluzione
(a un certo punto gli verrà fatto rilevare che è felice solo due volte l'anno:
in primavera e in autunno quando presenta le nuove collezioni), bensì si spinge
oltre: lo contestualizza, ad
esempio, nella lacerante situazione di chi ha lasciato la natia Algeria (da cui
anche il regista proviene) e sente il peso di dover rispondere ad interrogativi
socio-politici a cui si vorrebbe che prestasse attenzione. La sua vita invece
sta in quelle matite che muove con la rapidità di un pittore e da cui nascono
abiti che sanno valorizzare le donne rimanendo al passo coi tempi e spesso
anticipandoli.
Come Valentino Garavani con Giancarlo Gemmetti così per Yves è determinante l'incontro con
Pierre Bergé. È il compagno a cui può appoggiarsi quando la sua forza
creativa si muta in fragilità emotiva, è l'organizzatore e il manager. È colui
che sa dare un valore commerciale alle sue creazioni, mentre Yves acquista una
preziosa e antica statua di Buddha senza saperne neppure il prezzo. È a lui
(interpretato da un partecipe Guillaume Gallienne) che Lespert affida la
narrazione ed è il vero Bergé che ha consentito di esplorare il lato nascosto
alle cronache di una relazione durata tutta una vita. Un rapporto in cui non
sono mancati i tradimenti e che, per un periodo non breve, ha finito con il
ruotare intorno a una donna. La modella Victoire diviene per entrambi un
oggetto del desiderio e della gelosia che non li spinge mai a rinnegare od
occultare la loro omosessualità ma li mette a confronto con quel mondo
femminile per il quale entrambi ogni giorno elaborano e promuovono quegli altri
oggetti del desiderio che hanno il nome di abiti di alta moda.
The
september issue
Documentario statunitense incentrato sul
mondo della moda e, in particolare, su Anna Wintour, la celebre direttrice di
Vogue US, durante gli incontri di lavoro e le settimane della moda, raccontando
i nove mesi di preparazione del numero di settembre della rivista, da sempre
considerato il più importante in quanto caratterizzante le scelte editoriali di
tutto l’anno. La pellicola è stata presentata in anteprima al Sundance Film
Festival 2009, ottenendo il premio come Miglior Documentario. Ha inoltre
partecipato a numerosi eventi fra cui il Full Frame Documentary Film Festival
(2009), il Silverdocs Afi/Discovery Channel Documentary Festival (2009) e
l’Edinburgh International Film Festival (2009).
Fashion
sulla 5th Avenue
Vi
sono cose e personaggi che caratterizzano un’epoca, un genere, un ambiente. Bergdorf Goodman è una di queste, al punto di assurgere il ruolo di icona.
Lo store della Quinta Strada, fondato a
fine '800 da Herman Bergdorf e poi acquisito da Edwin Goodman che lo ha passato
al figlio Andrew, è l'emblema del lusso nonché eco della storia degli Stati
Uniti. Unico nel suo genere, è il luogo dove ogni stilista sogna di vedere
esposti i suoi abiti.
Teatro di sequenze cinematografiche famose (una per tutte
la scena in cui Dudley Moore incontra Liza Minnelli in Arturo), citato in
innumerevoli dialoghi, il tempio della moda è l'oggetto di questo documentario che intervista i grandi nomi
del fashion, da Vera Wang a Oscar de la Renta, da Dolce&Gabbana a Narciso
Rodriguez, ma anche gli stilisti che non hanno ancora avuto accesso
all'edificio e vivono nell'attesa. Una
sorta di visita guidata nel museo del lusso e dell'esclusività, dove le
collezioni sono temporanee ma la fascinazione è permanente. Come ogni monumento
che si rispetti, anche questa cattedrale del fashion ha le sue memorie
sedimentate e le sue storie divenute leggendarie, come i cappellini di Jackie
O', la volta in cui una barbona si presentò con una borsa piena zeppa di
contanti o quella in cui Yoko Ono chiamò all'orario di chiusura una vigilia di
Natale e, insieme a John Lennon, comprò ottanta pellicce, una per ogni membro
del loro staff, spendendo qualcosa come cinquecentomila dollari. Ma c'è anche
una storia tutta al presente, di personal shopper, di guru dello stile, di
vetrine che hanno fatto sognare e continuano a farlo. E, tra tutti, è
sicuramente il capitolo sulle vetrine il
più affascinante e rappresentativo: curate come se si trattasse di vere e
proprie installazioni d'arte contemporanea, rigorosamente differenti l'una
dall'altra, ma legate da un tema che detta la religione del momento, le vetrine di Bergdorf sono un'esperienza
drammatica nel senso teatrale del termine, un tripudio di oggetti che
solleticano la cupidigia, oltre che un investimento a dir poco astronomico (ma
evidentemente sempre ripagato). L'allestimento nottetempo di questi sontuosi
fermo-immagine cinematografici, è un film nel film: dalla ricerca dei pezzi
unici alla commissione di ogni tipo di manufatto ad artisti e artigiani, fino
al trasporto e alla composizione "dell'inquadratura", la creazione
delle vetrine di Bergdorf Goodman è il dispiegamento materiale dell'ideale del
sogno americano del tutto-è-possibile, il trionfo dell'immagine, la ragione
dell'esistenza di un luogo del genere, così inarrivabile - per lo meno nella
sua totalità - da costituire un eterno oggetto del desiderio.
Il
documentario esplora la storia, i meccanismi profondi e i segreti di questo
magazzino, partendo dalla nascita come modesta bottega sartoriale per signore
per arrivare a divenire il riflesso della cultura contemporanea. Per la prima volta il grande pubblico ha
l’occasione di gettare lo sguardo dentro questo magico universo, carpendone i
segreti: le leggende, le feste, le vetrine, le donne, i compratori e i clienti
prendono nuovamente vita in questo ritratto dove creatività e commercio entrano
in simbiosi.
Diana
Vreeland - L’imperatrice della moda
Diana Vreeland: giornalista ma, prima
ancora, icona di stile del ventesimo secolo. A lei, imperatrice della moda, il plauso d’aver dettato le regole di gusto ed eleganza
a un’intera generazione di celebrità. “L'occhio deve viaggiare”. Fu questo il mantra che guidò il lavoro della Vreeland
come editor della rivista femminile Harper's Bazaar prima (a partire dagli anni
Trenta) e come redattrice capo di Vogue America poi (dal 1962 al 1972). Un
motto che la spinse a concepire i servizi di moda come reportage realizzati in
giro per il mondo e strutturati come storie che suscitavano una visione romantica
della moda. Il tutto all'insegna di un'originalità fuori dal comune.
Il documentario diretto da Lisa Immordino
Vreeland, nipote della giornalista scomparsa nel 1989, racconta la vita e
soprattutto la carriera di questo genio creativo e anticonformista, intollerante
alla noia e alla banalità. Con l'ausilio di filmati di repertorio, scatti
patinati, fotografie d'autore e interviste a familiari, collaboratori e amici
della Vreeland, la regista tratteggia il ritratto scanzonato, leggero e
colorato di una donna divenuta simbolo di bellezza pur non essendo affatto
bella (la madre la trattava come il brutto anatroccolo di famiglia). Una donna
che si propose di emergere in un mondo dominato dagli uomini, imponendo la
figura della ragazza ambiziosa e stravagante e anticipando le tendenze,
incurante degli scandali (come quando sdoganò il bikini e i blue jeans). Numerose le dive lanciate dalla
caporedattrice dalle pagine di Vogue: da Lauren Bacall a Twiggy, da Brigitte
Bardot a Cher, da Lauren Hutton ad Angelica Huston a Marisa Berenson. Alcune
raccontano la loro esperienza nel documentario, al pari dei fotografi di
successo (su tutti Irving Penn) che hanno messo il loro talento al servizio
dell'estro di Diana Vreeland e degli stilisti che la stessa ha contribuito a
consacrare nell’olimpo dei divini (come Missoni, Valentino, Calvin Klein e
Oscar de la Renta). Ma sono soprattutto
gli estratti delle interviste alla stessa Diana Vreeland che compongono il
quadro di una donna irriverente e dall'energia vulcanica, che adorava la
mondanità e i fermenti culturali della Parigi della Belle Epoque, in cui
nacque, e che trovò nel fervore libertario, giovanilistico e anticonformista
degli anni Sessanta le più fertili condizioni di ispirazione.
”Non conta tanto il vestito che indossi,
quanto la vita che conduci mentre lo indossi” era solita affermare: un
principio identitario che caratterizzò il suo lavoro fino alla fine. Dopo l'avventura di Vogue, infatti, si
impegnò come consulente tecnico dell'Istituto del costume del Metropolitan
Museum of Art, che osò trasformare in una sorta di night club, con sommo
scandalo dei benpensanti e straordinario successo di pubblico e celebrità.
Una
dedizione alla carriera, quella di Diana Vreeland, che la portò a trascurare la
vita familiare, come emerge dalle interviste ai figli, che la dipingono come “una
donna priva di emozioni, che non si interessava alle cose convenzionali da
madre ordinaria”. Sono queste le uniche ombre in un ritratto che predilige i
chiari agli scuri, come se la regista non volesse macchiare l'agiografia della
Vreeland, rispettando la volontà della stessa giornalista, che preferiva
parlare della sua straordinaria carriera piuttosto che della vita privata.
Obiettivo
Annie Leibovitz
Interessante
documentario che racconta il lavoro - e in parte anche la vita - di una
delle più importanti fotografe al mondo: Annie Leibovitz. Dall'adolescenza nomade per seguire
il padre, militare di carriera, agli anni di "Rolling Stones", dalla
svolta glamour alla scoperta
dell'impegno accanto a Susan Sontag fino al set di Maria Antonietta, impressiona la quantità di luoghi e persone,
celebri e non, che la fotografa americana ha ritratto nel corso del tempo. Nel film, diretto dalla sorella Barbara,
Annie Leibovitz si racconta, passando dagli anni ’60 passati a San
Francisco ad insegnare prima arte e poi a fotografare influenzata da
grandissimi maestri come Robert Frank ed Henry Cartier-Bresson fino al suo
ingresso al giornale Rolling Stone, dai primi successi alle immagini come
quelle scattate a Bette Midler tra migliaia di rose rosse o a John Lennon e a
Yoko Ono, fotografati da lei insieme cinque ore prima l’omicidio del musicista.
A corollario il libello Dietro una lente: vita e fotografie di
Annie Leibovitz di Luca Scarlini, critico e scrittore, che
racconta l'itinerario artistico della Leibovitz, provando anche a
spiegare le ragioni e i segreti di un successo planetario.
Coco
avant Chanel. L’amore prima del mito
Film
biografico del 2009 diretto da Anne Fontaine, interpretato da Audrey Tautou e
nominato agli European Film Awards, BAFTA Awards, Premi César, Premi Magritte e
agli Academy Awards. La pellicola
racconta la storia della stilista francese Gabrielle Coco Chanel, dalla povertà
e dai primi lavori come cabarettista fino alla nascita della Maison di alta
moda, quintessenza di eleganza e raffinatezza. Parallelamente, viene raccontata
la sua più grande storia d’amore con Boy Chapel.
Gabrielle è una giovane donna
abbandonata dal padre e cresciuta in un orfanotrofio, dove ha imparato l'arte
del cucire. Di giorno è impiegata come sartina in un negozio di stoffe troppo
lontano da Parigi e di notte canta canzonette stonate per soldati ebbri di
donne e di vino. L'incontro con Étienne Balsan, nobile e villano col vizio dei
cavalli, introduce Coco in un mondo di pizzi, ozi e carezze. Insofferente alla
vita edonistica e determinata a conquistare il suo posto nel mondo, troverà
ispirazione nell'amore per Boy Capel, un gentiluomo inglese che corrisponde il
suo sentimento, intuisce la sua grazia naturale e asseconda le sue
inclinazioni. Le sue mani, guidate dal cuore, confezioneranno cappelli per
pensare e abiti per emancipare (rigorosamente in jersey). Coco avant Chanel punta a svelare le dinamiche complesse che
presiedono alla relazione fra l'universo nobiliare, quello borghese e quello
proletario nella Francia del Primo Novecento. I tre mondi trovano una
perfetta ed esatta dislocazione nei teatri e nelle tribune degli ippodromi,
lungo i corridoi e le scale della villa Balsan in cui si svolge la storia e la
vita di Gabrielle. Dialoghi e azioni contribuiscono a definire un confine
esistente fra i piani: il brulicare frenetico di chi sta sotto a servire,
la noia abulica che divora le relazioni degli inquilini del piano nobile
servito. Tutto nel film funziona per nette opposizioni economiche, somatiche,
cromatiche (gli abiti minimalisti e desaturati della protagonista contro quelli
appariscenti e vivaci di Émilienne), a sottolineare e forzare la differenza tra
l'orfana Coco e i figli "legittimi" della società altolocata. Ad
abbattere l'agonia di una sovranità arcaica che gioca ancora a nascondino,
sospesa e "in maschera" alle soglie della modernità, provvede una
donna dotata di intelligenza e cultura, che punta sul fashion design
fino ad innalzarlo a strumento di potere e di emancipazione, colpendo con
eleganza e sobrietà l'ordine sociopolitico maschile.
Coco Chanel rappresenta
una sorta di reazione creativa e attiva a una vita che poteva essere triste e
ingrata, alle ipocrisie e alle ritualità della casta nobile, ai momenti
codificati dell'etichetta e alle strutture del potere maschile. Dentro i suoi
abiti i due livelli della società abbandonano la loro impermeabilità, lasciando
scivolare sulla rivoluzionaria stoffa a maglia rasata elementi di continuità,
come il contatto sessuale e quello sentimentale. Coco "spogliò" la
donna dai condizionamenti culturali, che la immobilizzavano in una recita
frivola, invitandola a dire (anche) attraverso ciò che indossa. I vestiti
lasciano il posto ad altri vestiti ma il tailleur Chanel (ri)fà la donna.
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