martedì 4 dicembre 2012

PEOPLE_La Marchesa Luisa Casati: tra edonismo, culto estetico e lusso allo stato puro








Grande Eccentrica e icona d’eleganza, la marchesa Luisa Casati – nata floridamente borghese come Luisa Amman e ascesa al rango nobiliare per diritto matrimoniale - amava dire di sé “Voglio essere un’opera d’arte vivente”. Una dichiarazione d’intenti eco di un estetismo in puro stile Oscar Wilde, che vuole l’esistenza alla stessa stregua di un capolavoro, ma, al tempo stesso, avanguardia progenitrice di quello che sarà il divismo pop-mediatico di Andy Warhol. La marchesa, grazie alla sua bellezza per così dire antigioconda, diventa subito l’emblema di una femminilità fatale, imprevedibile e inquietante: alta, magrissima, col volto candido incorniciato da una cascata di riccioli rossi e dominato da predatori occhi verdi (sempre circondati dal nerofumo - antesignano del make-up smoky-eyes oggigiorno di moda -  e inondati dalla belladonna per renderli più profondi).
È la protagonista assoluta del primo trentennio del XX secolo: non solo per la mondanità, ma anche per l’effervescenza creativa che cristallizza attorno alle leggendarie proprietà, il Palazzo dei Leoni a Venezia, il Palais de Rose a Parigi, la villa San Michele a Capri, la casa avita ad Arcore. Feste ricchissime a cui partecipano artisti internazionali sono all’ordine del giorno: nel corso degli anni chiede a Boldini, Augustus John, Van Dongen, Brooks e Zuloaga di ritrarla; a Drian, Martini e Alastair di disegnarla; a Balla, Barjansky ed Epstein di scolpirla; a Beaton, de Meyer e Man Ray di fotografarla; a Bakst, Poiret, Fortuny ed Erté di vestirla con abiti-costumi improbabili.
Un gusto estremo ed esasperato per l’ego e per il capriccio, che nasconde però un’interiore dissonanza pallida, la stessa che aleggia sul suo volto e che la porta in più di un’occasione altrove, alla ricerca di una profonda conoscenza di se stessa. Nei luoghi – è stata una delle più grandi viaggiatrici dell’epoca, accompagnata dalla processione dei suoi inseparabili 50 bauli di leopardo e velluto nero, che l’anticipavano, annunciandola, in ogni dove – ma soprattutto nella ricerca di emozioni. La passione per la magia nera, le sedute spiritiche, i serpenti veri come bijoux, la riproduzione di se stessa in cera, indicano una personalità febbrile e autodistruttiva nella sua splendente decadenza. Unica persona in grado di stabilizzare il suo umore, Gabriele D’Annunzio, che la ribattezza Coré e la “inizia” al culto del senso dell’avanguardia: diviene così la musa dei futuristi, ammalia Diaghilev, commissiona musiche a Ravel.
Il suo mito si è spinto oltre la sua esistenza, ispirando personaggi cinematografici interpretati da Theda Bara, Ingrid Bergman, Valentina Cortese, Vivien Leigh. Nel 2008 John Galliano la celebra con la collezione Haute Couture primavera estate.
Muore a Londra nel 1957 in miseria ma non sola. E per non smentirsi sulla lapide della sua tomba trionfa una citazione dello shakespeariano Antonio e Cleopatra: “L’età non può appassirla, né l’abitudine rendere insipida la sua varietà infinita”.
La sua vita è la metafora di un mondo che non esisterà mai più: quello del lusso estremo, unito allo sprezzo di ogni convenzione

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