Parlando di riviste patinate devote allo
stile declinato nelle sue accezioni più autentiche – Vogue in testa – non si
può far riferimento alla fotografia di moda propriamente intesa.
Per farlo, niente di meglio che iniziare
da una definizione di Alexander Liberman a riguardo: “Una fotografia di moda non è la fotografia
di un vestito; è la fotografia di una donna”. Questo, in sintesi, è quanto
si aspetta di vedere una donna nel momento in cui osserva uno scatto di moda: lo specchio di se stessa e non una semplice
raffigurazione estetica; il riflesso delle proprie fantasie, di come vorrebbe
apparire agli occhi degli altri, di quello che vorrebbe trasmettere.
Pertanto, qualcosa che si spinge ben
oltre la mera apparenza figurata, affondando il suo credo in valide motivazioni
e ragioni d’essere. Immagini per così dire introspettive, che con la loro
perfezione formale invitano coloro che le ammirano a guardarsi dentro, per
capire il proprio ego e poter affermare, convinti, “voglio essere così”. Un viaggio nell’essere e nell’umanità, volto a
illustrarne la ricchezza e la complessità, a emozionare di fronte alla relativa
presa di coscienza e a trasformare in qualcosa di tangibile aspetti altrimenti
impercettibili alla vista e interpretabili solo dagli animi più sensibili.
La
fotografia di moda si carica, pertanto, di pregnanti istanze sociali, volte a
mostrare il suo lato più investigativo. Testimonia un’epoca,
riportandone fedelmente tutti i tratti che la caratterizzano. Documenta
puntualmente i valori di un tempo, di quel preciso istante in cui viene
realizzata: diviene storia e parte integrante del vissuto di ciascuno di noi,
assurgendo il ruolo di compagna di viaggio di un tempo che scorre ed evolve.
A lei, l’arduo compito di rappresentarne
con matematica precisione i cambiamenti, cogliendoli nella loro essenza e
mettendoli in scena con la forza dell’immagine.
Fotografia
di moda intesa come veicolo della società: ecco svelato perché la si vede mutare nei suoi canoni estetici e
nella sua resa formale.
Le
prime fotografie apparse su Vogue, raffigurano donne dell’alta società, vestite
con abiti sontuosi e grandi cappelli; le immagini sono spesso scattate nelle
loro dimore o nei luoghi di ritrovo dell’alta società dell’epoca, come yacht
club o country club. Uno
stile fotografico che con l’avvento di Condé Nast subisce un profondo
mutamento: gli abiti devono essere
indossati da attrici, sicuramente ben più adatte a posare e più inclini
all’obiettivo rispetto alle rispettabilissime signore dell’alta società. Ai
Campbell Studios l’annoso compito di rendere in immagini quello che a Nast
frulla nella testa.
Il gennaio
1913 segna un punto di svolta: su
Vogue compare una suggestiva fotografia che ritrae una donna in abito bianco
con ornamenti scuri, rivolta verso l’obiettivo con aria altezzosa e una mano su
un fianco. Quest’immagine rivoluziona lo stile della fotografia di moda
dell’epoca, tanto da indurre il fotografo – Adolphe de Meyer – a firmare nel
1914 un contratto di esclusiva per le riviste Condé Nast. A lui, seguono
numerosi altri maestri dell’arte fotografica, tra cui svettano Edward Steichen,
Cecil Beaton,
Horst P. Horst,
Toni Frissel
e André Durts,
che contribuiscono a rendere uniche le pagine di Vogue negli anni ’20 e ’30.
Durante il secondo conflitto mondiale,
la rivista dona ampio spazio ai reportage di guerra di Lee Miller, che segue l’esercito
americano dallo sbarco in Normandia alla liberazione della Francia, del
Lussemburgo, del Belgio e dell’Alsazia. La fotografa immortala anche i campi di
concentramento di Buchenwald e Dachau: gli scatti saranno pubblicati sul numero
di giugno del 1945.
Come si diceva, numerosi i nomi della
fotografia che si sono avvicendati nella resa illustrata delle pagine di Vogue,
rendendole uniche e indimenticabili. Irving Penn, per più di sessant’anni stretto
collaboratore della testata, entra a
farvi parte nel 1943 in qualità di assistente dell’allora neo art director
Alexander Liberman. Il suo compito è quello di trovare nuove idee per le
copertine, spiegandole ai fotografi. Non riuscendo nel suo ruolo, viene
invitato da Liberman a scattare lui stesso le fotografie: un debutto quasi
casuale che segna l’inizio di una delle carriere più feconde in ambito
fotografico.
In qualità di art director, Liberman è
deciso a rivoluzionare la rivista e per farlo si avvale dell’imprescindibile
contributo di nuovi fotografi da affiancare a Horst, Beaton e Penn. Viene così
assunto Erwin
Blumenfeld, sotto consiglio di Beaton, che porta dentro le pareti di
Vogue, lo cifra stilistica che lo ha reso celebre nel settore: grande esperto di tecniche di camera oscura
e amante della sperimentazione. A sua firma, decine e decine di copertine,
anche se la più rappresentativa è
sicuramente quella del numero di gennaio del 1950, raffigurante il viso della
modella Jean Patchett ridotto, dallo stesso Blumenfeld, a un solo occhio e a una
bocca con un neo. Definito a ragion veduta da Liberman “il più grafico di tutti i fotografi”, si
occuperà soprattutto di copertine.
Nel 1955 è invece la volta di William Klein,
a cui va il plauso di riuscire a creare
atmosfere uniche nelle sue immagini, ambientando i suoi set nelle strade delle
metropoli e facendo in modo da indurre nelle modelle un atteggiamento del tutto
naturale di fronte all’obiettivo. Gli va riconosciuto, inoltre, il merito d’aver introdotto l’uso di
strumentazioni poco diffuse all’epoca nella fotografia di moda, come
teleobiettivi e grandangolari, ponendosi quale pioniere dell’avanguardia
tecnologica e suo promotore.
Il
1° settembre 1962, invece, Vogue esce con gli ultimi scatti di Marilyn Monroe,
realizzati da Stern in un servizio per la rivista effettuato all’Hotel Bel Air
di Los Angeles.
Nel 1965 si unisce alla cordata Richard Avedon,
già molto affermato nell’ambiente, portando il suo stile, il cosiddetto Look
Avedon: in altre parole, ragazze
moderne, perfettamente a loro agio anche con indosso le stravaganze stilistiche
più estreme, come gli indumenti di plastica o metallo in voga nell’alta moda
degli anni ’60.
Complice l’emancipazione femminile di
quel tempo, nel decennio immediatamente successivo s’impone l’esigenza di rappresentare capi
d’abbigliamento pratici, portabili e confortevoli, senza privarli però del
fascino e della fantasia necessari ad attrarre l’attenzione delle lettrici.
Dall’ideale di bellezza si comincia così a passare a un vero e proprio stile,
da rendere e illustrare attraverso gli scatti di abili maestri dell’obiettivo,
in grado di cogliere le particolarità estetiche per enfatizzarle con la loro
firma.
Nasce così lo “Stile Strada” o “Stile
Paparazzi”, in altre parole i fotografi che fingono di sorprendere le loro
modelle in strada mentre svolgono le loro consuete attività quotidiane. Chris Von
Wangengheim, Barry Lategan, Albert Watson, Duane Michaels, Kourken Pakchanian e Stan Malinowski
diventano veri e propri esperti di questo filone, anche se la palma di
protagonista indiscusso in quest’ambito va ad Arthur Elgort, che ha saputo
distinguersi su tutti, diventando uno dei fotografi preferiti di Grace
Mirabella.
È l’inizio
degli anni ’70 quando Vogue assume Helmut Newton, colui che ha creato le immagini più
sensuali e intriganti del XX secolo. Nello stesso periodo approda anche una
fotografa, dallo stile indubbiamente provocatorio: Deborah Turbeville. Entrambi gli
artisti, anche se molto criticati dal pubblico dell’epoca non ancora abituato a
osare troppo, sono fortemente sostenuti da Liberman, che li apprezza per la rappresentazione innovativa e, al tempo
stesso, sensuale, della moda che rendono.
Corre l’epoca Anna Wintour e il temutissimo direttore, seguendo la scia dei suoi
predecessori, ama circondarsi di talenti della fotografia, aprendo le porte ai
nomi più quotati di questa forma d’arte. Annie Leibovitz, Steven Meisel, Arthur Elgort e Patrick
Demarchelier, sono solo alcuni degli artisti che prendono parte
all’avventura Vogue, affiancando celeberrimi maestri del calibro di Helmut
Newton, Bruce Weber, Herb Ritts e Irving Penn.
Vantando una squadra così schierata, la
testata è diventata una vetrina privilegiata per la fotografia di moda
propriamente intesa, dando ampio respiro agli aspetti più autentici senza,
però, tralasciare di evidenziare i tratti spettacolari. Il tutto, nel rispetto
di una sofisticata resa illustrata, rappresentazione ultima di specifiche
istanze sociali e culturali.
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