Quando
oggi indossiamo blazer e pantaloni di seta, in testa osiamo un turbante, al
polso facciamo tintinnare una miriade di bracciali etnici e giochiamo col color
block, è a Loulou
de La Falaise (all’anagrafe Louise Vava Lucia Henriette Le Bailly de
La Falaise) che ci rifacciamo, per trent’anni ispiratrice e collaboratrice di Yves Saint Laurent, icona e regina
della scena parigina più mondana.
Alchimia di nobili radici irlandesi,
raffinate genie francesi ed eccentricità britanniche, aveva un’allure unica:
sottile come un foglio di carta, con i suoi boccoli rosso tiziano e gli occhi
grandissimi spalancati sul mondo, maschera con atteggiamenti da garçonne la sua
innata timidezza, sviluppando un’iconica magnitudine e, al contempo, un’inafferrabile
ambiguità.
Un’androginia di cui Loulou era consapevole
e fiera, tanto da saperla dosare sapientemente (non usciva mai senza tacchi) e
forse eredità della bisnonna Vavarina Pike, che era solita stupire gli
abitanti della sua cittadina irlandese indossando cardigan e fedora comprati
nei reparti rigorosamente maschili dei department store londinesi. Ma Lady Pike
non era l’unica a caratterizzare una genealogia costellata di stile. La nonna, Lady Rhoda Birley, moglie del ritrattista
prediletto di Queen Mary, Sir Oswald Birley, era una donna d’innata bellezza,
con la passione per il giardinaggio, la botanica e le arti. La madre, Maxime
Birley, musa di Elsa Schiaparelli, Jacques Fath e Paquin, era per Cecil Beaton
l’unica inglese davvero chic. Nel 1946 sposa l’aristocratico francese,
scrittore e intellettuale, conte Alain de Bailly de La Falaise: due anni dopo
nasce Loulou e l’anno successivo il secondo figlio Alexis. Il matrimonio, però,
ha vita breve: accusata di tradimento, Maxime decide di divorziare, perdendo
ogni diritto sui figli. Loulou e suo fratello crescono in una cattolicissima
famiglia d’affido in provincia, a Seine-et-Marne. Per Loulou è un periodo
difficile, al quale trova rimedio con l’immaginazione e la forza evasiva da
essa sviluppata. Proprio in questi anni
impara a rispondere alle difficoltà della vita con una risata, facendo finta
che tutto vada bene. Con eleganza traveste il suo coraggio in indifferenza;
diventa impermeabile e inizia il suo pellegrinaggio in vari istituti: le
medie in Inghilterra, il liceo francese a New York, fino a terminare gli studi
in collegio a Gstaad. Adolescente,
ritorna a Londra, dandosi a una vita da vera socialite aristochic, complice lo
zio Mark Birley, patron del night club Annabel’s di Berkeley Square, mecca
delle star del rock e della moda. Alla fine degli anni ’60, decide di
seguire la madre, che si è risposata col curatore del Met, a New York. Qui conosce Diana Vreeland, storico direttore
di Vogue America, che se ne innamora: in men che non si dica fa la sua comparsa
sulle pagine della rivista, fotografata da Richard Avedon e Helmut Newton. Tuttavia,
quella della modella non è la sua strada, essendo troppo magra e petite come si
definiva lei stessa. Ha più successo,
infatti, come designer di tessuti per Halston, stilista di cui è amica.
Nel 1966, quasi per gioco, sposa
l’aristocratico inglese Desmond FitzGerald, ma l’unione naufraga dopo poco
tempo. Torna a New York dove divide l’appartamento con Berry Berenson, sorella
di Marisa e nipote di Elsa Schiaparelli. Trascorre il natale con Mick e Bianca Jagger; frequenta il clan di Andy
Warhol; è intima di Fred Hughes, storico direttore della Factory, e di Gerard
Malanga, assistente del padre della pop art, fotografo e regista. Loulou è una delle giovani regine del
mitico Studio 54, ma il richiamo della metropoli londinese si fa sentire: parte
e qui partecipa al casting dello scandaloso film Performance di Nicholas Roeg a
fianco di Mick Jagger. Qualche tempo
più tardi conosce lo stilista Fernando Sanchez e si trasferisce nel suo
appartamento di Parigi di Place de Furstenberg, dove avviene uno degli
incontri più significativi della sua vita in occasione di uno speciale tea
party a base di brioche calde e marijuana. Quel
giorno suonano alla porta Betty Catroux, Thadée Klossowski de Rola, scrittore e
figlio del pittore Balthus, Pierre Bergé e Yves Saint Laurent. Sarà stato
per i suoi tratti che evocano un quadro di Edward Burne-Jones ma senza
tragicità, per la sua risata folle, per la vitalità contagiosa, Loulou incanta il couturier. Incantevole ed
etera nel suo completo pantalone di Ossie Clark, con una collana di vetro
colorato al collo e un foulard annodato sui capelli splendidamente spettinati,
Loulou appare magnetica, elegante e raffinata, quintessenza di aplomb aristocratico
e di un modernissimo swinging London. Yves la invita a Marrakech, dove strabilia tutti con i suoi look originali,
fatti di sarong, turbanti e parei. Non si vergogna di niente e nessuno. Il
suo guardaroba è eclettico al punto da sconvolgere i codici vestimentari
dell’epoca. Ha le idee chiare su cosa le stia bene e cosa debba bandire. Regola numero uno: meno vestiti possibili,
essendo troppo piccola e troppo magra. Via libera, quindi, a pantaloni che
allungano la figura, abiti striminziti dall’aria fanciullesca e stivali. Regola
numero due: accessori a gogò. Cinture, bracciali, foulard: una cascata da
mixare sapientemente con abiti dal gusto vintage.
A
distanza di tempo, si comprende come Loulou
sia stata l’antesignana del tanto predicato boho look à la Kate Moss. La
prima ad avere sperimentato dress code del tutto inediti per l’epoca. Quattro anni dopo il loro incontro, mentre
è in Sardegna con l’amica Diane Von Furstenberg, riceve una telefonata di Yves
Saint Laurent che le propone di lavorare per lui. Nel 1972 comincia a disegnare la maglieria e gli accessori della maison.
Il couturier è rapito dal gusto che possiede nel mixare i colori, dando vita ad
abbinamenti del tutto nuovi. Per lui Loulou è un laboratorio di creatività:
collane tempestate di jet, amuleti di vetro blu, chokers che sembrano fatti con
ciottoli levigati dal mare di Bretagna, voluminosi bangles dorati incrostati di
pietre, gli smalti, le lacche cinesi, gli orecchini scenografici e poi gli
immancabili turbanti e foulard. Loulou rivela una grande cultura visiva, è
disciplinata nel lavoro e instancabile. Immette nella vita del laborioso Yves
Saint Laurent un’impronta bohèmienne, sensuale, edonista e gioiosa. Diviene la
sua musa, l’ispirazione dietro le collezioni “folk” dei cosacchi russi e delle
imperatrici cinesi. E sempre lei è
dietro la rivoluzione di genere, che implica l’adozione di codici boyish da
parte del côté femminile, per donne che amano sempre
di più indossare lo smoking. A lei sono
affidate la gestione e la supervisione del backstage delle sfilate ed è lei a
essere la confidente del maestro.
Una simbiosi
creativa e professionale che diviene un rapporto di stima reciproca, ma,
soprattutto, di amicizia. Yves Saint Laurent, infatti, le organizza
un indimenticabile party per il secondo matrimonio di Loulou con Thadée
Klossowski de Rola presso lo Chalet des Iles, nel Bois de Boulogne, decorandolo
come per uno sposalizio indiano. È
l’11 giugno 1977: gli invitati, il gotha della società, arrivano a bordo di
battelli fioriti, e la sposa, fedele alla sua vena androgina, è vestita da
maharaja, con pantaloni sarouel, camicia, giacchino, calze e guanti bianchi,
scarpette d’argento, cintura con pompon, una moltitudine di collane, grandi
orecchini e in testa un turbante sormontato da una spilla gioiello e da una
lunga piuma rossa, che riprende il bouquet di rose scarlatte. Ça va sans dire, tutto YSL Rive Gauche,
la linea di prêt-à-porter lanciata dallo stilista. Look total white anche per lo
sposo così come per lo stesso couturier. Dopo otto anni Loulou ha una figlia –
l’adorata Anna – a cui ovviamente Yves fa da padrino.
La maternità rende
Loulou ancora più gioiosa e più consapevole. Finiscono le serate e le uscite
notturne e anche l’atmosfera della maison sembra assopirsi. Nel 2002 Yves Saint Laurent decide di
ritirarsi dalle scene. Anche Loulou lascia il marchio e si cimenta con una
linea di bijoux tutta sua. L’anno dopo apre una boutique. Le sue creazioni
rappresentano la quintessenza del suo gusto: lacche colorate, pietre semi preziose,
bei materiali, pregiate lavorazioni. Alle
collezioni dona nomi poetici - I fiori del male, Sogno di una notte di mezza
estate, ecc. - e a ogni pezzo il nome di una località a lei cara: Patmos,
Barcellona, Udaipur, Tanger, Bahia. Ama
l’antica tecnica Grispois, una lavorazione del vetro molto francese e molto
delicata, raffinata e in via d’estinzione. Vende anche abiti, accessori,
complementi d’arredo. Disegna gioielli
anche per Oscar de La Renta; collabora con Target nell’ideazione di bijoux per
tutte le tasche.
Inizia però un periodo
nefasto per Loulou: nel 2008 muore Yves Saint Laurent, mentore e amico di una
vita; nel 2009 è la volta di sua madre. Nel 2011 Pierre Bergé le affida la
direzione artistica della mostra parigina Saint Laurent Rive Gauche, la Révolution de la Mode. Poco dopo, ormai
malata, lascia il suo bellissimo atelier, chiude i negozi, abbandona Parigi e
si rifugia con la famiglia in Normandia. Il 5 novembre 2011, a soli 63 anni,
muore nella casa di campagna a Boury en Vexin, in compagnia del marito e della
loro unica figlia Anna. È così, in silenzio, che se ne va una donna “rara” come la definiva il suo maestro. Una donna che ha
insegnato l’arte del mix & match, a osare con i colori, a giocare con gli
accessori, a non essere mai uguali a se stesse, a esprimere la propria
personalità senza temere il giudizio degli altri.
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