mercoledì 18 luglio 2012

ABOUT_Be chic!







Chic…un termine tanto utilizzato oggi da annoverarlo nel lessico comune, in modo più o meno serio, in bilico tra effettive constatazioni di status quo e metaforiche estensioni semantiche. Ovvio che, in ogni caso, gioca un ruolo la componente figurata che accompagna l’esclamazione nella sua definizione profonda. Se il suo suono può assurgere a una o l’altra questione è un discorso, ma per quanto attiene la sua origine etimologica è opportuno fare un po’ di chiarezza visto che vanta un passato un po’ travagliato, combattuto tra culture diverse che ne rivendicano la paternità.
Il dizionario etimologico Petit Robert, infatti, scrive che il termine d’oltralpe deriva dal tedesco schick (abito) e che i francesi, a partire dai primi anni del secolo scorso, hanno cominciato a usarlo - scrivendolo chique - per identificare la disinvoltura, il savoir-faire e l’eleganza. Di abiti così come di portamento. Tuttavia, il Larousse dei primi del ‘900 indica un’altra ipotesi, tutta francese ça va sans dire, che risale addirittura ai tempi di Luigi XIII (siamo agli inizi del ‘600) quando a Corte, per definire un uomo molto abile nel destreggiarsi con la legge, si usava chic, come diminutivo della parola chicane che, anticamente, significava cavillo, arzigogolo, passaggio a zig zag, ben lontano dall’attuale interpretazione che indica  una doppia curva a “esse”, tipica dei circuiti di Formula 1 per rallentare la velocità. Nel tempo, l’implicazione semantica legata al termine chic è mutata sino ad assumere quella connotazione squisitamente elegante con cui di diritto, insieme ad altre regole della moda, si è aperta un varco nelle abitudini lessicali italiane, ma non solo, in termini di stile e buon gusto. Chic, tremendamente chic, adorabilmente chic e tutti gli avverbi che dir si voglia, accompagnano l’etimo del vestir bene e dell’atteggiarsi in determinati modi: parvenze naturali, s’intende, e mai ostentate. Con ogni probabilità il suo debutto in società risale all’epoca della Belle Epoque, se non addirittura prima, sotto l’egida delle signore imbevute di cultura francese, convinte che per fare di una ragazza una dama della buona società fosse indispensabile assumere qualche sfumatura française, volta a denotare una classe inconfondibile. D’altra parte, le donne che appartengono a questo rango sociale, possiedono indumenti che non possono chiamare in altro modo se non in francese: dalla fascinosa guêpière al peignoir, indossato per farsi pettinare dalla cameriera, alla vaporosa liseuse, una giaccheta di seta bordata di pizzi, dello stesso colore della camicia da notte, realizzata in impalpabile chiffon o addirittura interamente in struzzo. È l’epoca in cui il corredo di una sposa di buona famiglia prevede una serie di abiti da indossare nelle diverse ore e occasioni del giorno: oltre ai vestiti lunghi da sera, vi sono quelli habillé, ribattezzati qualche anno più tardi cocktail dress. La cultura francese - e quindi anche lo chic – ha dominato l’alta borghesia italiana fino al secondo conflitto mondiale (vano ogni tentativo fascista di italianizzare i capisaldi di stile d’oltralpe, come per esempio la “ragazziera”, traduzione alquanto ridicola della garçonniere), proiettando il suo raggio d’azione però anche oltre, visto che negli anni ’50 è ancora la Francia a dettare legge in fatto di moda o meglio di couture, schierando maestri di chic come Chanel, Balenciaga, Balmain e Dior e lanciando la moda delle aigrette, lunghe piume sottili che seguono la curva del viso, da indossare in testa la sera. Elisir di lunga vita per lo chic, che ha traghettato il termine e il suo carico valoriale oltre il confine estremo del ’68, la rubrica di costume tenuta da Camilla Cederna su L’Espresso. Ora lo chic si destreggia tra settimane della moda, passerelle, collezioni stagionali e street style: un’accelerazione spasmodica che ha portato le griffe all’esasperata ricerca di una pietra filosofale dello stile, nell’invocazione esasperata di uno chic che fu. Simbolo di un bel tempo andato, irripetibile nella sua essenza così come nelle sue forme.

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