martedì 19 giugno 2012

ABOUT_Il cinema di moda









Cinema e moda. Due universi, due forme d’arte, due modi per comunicare. Ma, al contempo, un’unica finalità d’intenti: trasformare in immagini animate e tratti concreti, valori, istanze, sogni. Due mondi che sembrano non parlarsi ma che, invece, nascondono una fitta trama di dialoghi e relazioni che affondano solide radici nel passato. Un cinema alla moda in cui i due attori protagonisti non disdegnano un reciproco interesse, influenzandosi a vicenda. Il grande Luchino Visconti, per esempio, ai suoi attori faceva indossare non solo abiti e accessori autentici delle epoche che andava a rappresentare – con buona pace di produttori e quanti prendevano parte al sostentamento finanziario della pellicola  ma addirittura quei particolari che mai gli spettatori avrebbero visto (come le sottovesti). Una cura maniacale del dettaglio perpetuata nella convinzione che la fedele riproduzione dei canoni estetici avrebbe meglio coinvolto lo spettatore, calandolo nell’ideale atmosfera propria di quegli anni. Prima del Maestro Visconti, nell’epoca del muto i couturier creavano per le dive i costumi più bizzarri, destinati a divenire veri e propri protagonisti non solo di una scena ma di un’intera sceneggiatura, spesso scritta in modo tale che le protagoniste sfoggiassero abiti sempre diversi, opulenti e magnificenti, tripudio della più amabile sartorialità. Una follia che aveva portato i grandi sarti della fine degli anni ’20 a concepire lo stile del bianco e nero, in un’ossequiosa venerazione del bianco e nero dello schermo. Bisogna aspettare gli anni ’60 perché il rapporto tra cinema e moda si faccia più stretto e collaborativo, celebrazione di due realtà che nel tempo hanno imparato a parlarsi e confrontarsi, condividendo i rispettivi e più autentici aspetti. E se nel cinema si registra un declino in termini d’imposizione d’immagine e di quelle che saranno le tendenze, la moda – soprattutto quella italiana - conquista la palma di arbiter elegantiae per quanto concerne i dettami di stile. Un’eredità giunta fino ai giorni nostri, tanto che non di rado le major hollywoodiane scelgono abiti rigorosamente made in Italy per i set cinematografici, proprio in funzione del potere che hanno d’imporre un mito iconografico. Vediamo così James Bond, alias Pierce Brosnan, in Brioni e l’American Gigolo Richard Gere in Armani (come dimenticare la scena in cui stende sul letto camicie e cravatte, giacche e pantaloni, ton sur ton s’intende, per accostare i pezzi giusti?!). Una delle prime esperienze cinematografiche per la moda di Re Giorgio che da lì in poi ha vestito i protagonisti di oltre 80 film, tra i quali svettano “Entrapment”, “Batman”, “Pulp Fiction”, “Nirvana”. Un richiamo a cui non si è fatto trovare impreparato nemmeno Missoni, che ha dato il suo inconfondibile tocco a varie pellicole, da “Basic Instinct” a “Pretty Woman”, da “Philadelphia” a “Qualcosa è cambiato”. Così come Ermenegildo Zegna, Valentino, Versace, Fendi, Corneliani hanno “firmato” i guardaroba della mecca del cinema…non è un caso, quindi, se “Il Diavolo veste Prada”, esempio gridato di name placement (il nome di uno stilista è evocato già nel titolo della pellicola, seconda solo a “Colazione da Tiffany”) prima ancora che di product placement, tripudio di griffe e loghi, disseminati ovunque e pronunciati da tutto il cast. Assodata l’egemonia assoluta dell’industria filmica americana e della sua forza commerciale, vanno da sé la risonanza, la visibilità e la promozione che deriva per la moda italiana. Spettacolo e moda vanno sempre più a braccetto, condividendo fino all’inverosimile segreti e valori, imbattendosi spesso in strade non proprio così semplici, come per esempio, l’accaparrarsi le star cinematografiche più note come testimonial per la propria griffe o, ancora, curare in toto la vestizione di attori e attrici in occasione di première e red carpet di tutto rispetto, dalla serata degli Oscar in giù (Valentino docet).
Non meno importante - e quindi da non dimenticare – lo stretto rapporto tra fotografia di moda e cinema, osservabile platealmente nella comunicazione di molti stilisti, dove il desiderio di frammentazione e veridicità appaiono fortissimi, al punto che talvolta le immagini delle campagne pubblicitarie vengono tratte da veri e propri cortometraggi girati ad hoc. In tal modo, le atmosfere patinate cedono il passo ai toni narrativi del cinema, in una commistione di linguaggi sempre più sofisticatamente esplicita (emblematica la storica campagna di Ferdinando Scianna per Dolce&Gabbana che ha sottratto gli abiti all’epoca immortalata per farne autentici segni semantici). Di pari passo la moda sempre più dilagante dei videoclip “griffati”, vere e proprie forme espressive che denotano l’ambizione delle Maisons a vestire le celebrities del mondo della musica (Beyoncé, Madonna e Lady Gaga in testa).
Cinematograficamente parlano, invece, sono davvero ben pochi i registi che si sono cimentati con successo nel raccontare la moda. Vi è riuscito, per esempio, Win Wenders nel 1989 con “Appunti di viaggio su moda e città”, incentrato sulla figura di Yohji Yamamoto, di cui viene esaltato il magistrale lavoro.
Tuttavia, a prescindere da chi sia riuscito e chi meno, soltanto quando moda e cinema arricchiscono reciprocamente i loro contenuti, caricandoli di valori e significati, le immagini si fanno senza tempo e diventano un lessico universale, in grado di narrare in pochi fotogrammi l’essenza di tutta un’esistenza.

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